In un unico volume le lettere di due maestri del Novecento, ovvero come la letteratura debba essere feroce, implacabile, ineluttabile sogno. “L’illuminismo mio e tuo (1953-1985)” raccoglie decenni di corrispondenza fra Italo Calvino e Leonardo Sciascia. Un volume contro la povertà del dibattito pubblico contemporaneo e contro il trionfo di molta letteratura turistica o neo rusticana…
Io lavoro a scuola. La mia vita si svolge tra le aule, alla ricerca di sguardi, volti, soprattutto parole che non dovrebbero essere mai perdute. Ed è questa ossessione per la memoria che mi spinge a parlarvi di questo libro, per ricordare.
L’illuminismo mio e tuo, Carteggio 1953-1985 (324 pagine, 14 euro, Mondadori 2023), è un libro che parla di cos’è l’Italia oggi, di cosa è stata, di cosa siamo stati e di cosa siamo diventati. E, appunto, parla della testimonianza di un tempo forse perduto.
Penso sia accaduto a molti di noi, leggendo Calvino o Sciascia, di trovare sempre le risposte giuste e, a proposito di illuminismo, parecchie volte probabilmente abbiamo preso i loro testi in mano come si fa con un’enciclopedia, per trovare le risposte, esatte, catalogate, coerenti.
Chi scrive e chi legge
Il libro, curato in modo puntuale e fertile da Mario Barenghi e Paolo Squillacioti, esegeti massimi dei due autori, racchiude il carteggio nelle diverse fasi del rapporto intellettuale ed umano tra Calvino e Sciascia: dalle prime lettere negli anni Cinquanta dell’allora “provinciale” scrittore siciliano, alle discussioni approfondite sulla gestazione del gettone Gli zii di Sicilia – ricche di dettagli editoriali anche sorprendenti su cosa succedeva presso Einaudi in quegli anni, sino alle lettere della grande maturità di entrambi. Ci sono, com’è ovvio visti i ruoli, soprattutto Sciascia scrittore e Calvino lettore. Ma la letteratura è proprio frutto del dialogo tra chi scrive e chi legge (in questo caso un gran lettore), e da questo punto di vista il carteggio spiega con molta evidenza tale rapporto, indispensabile.
Il libro è arricchito da alcuni interventi e interviste dove Calvino parla di Sciascia, e viceversa.
Epistolario terapeutico
È una pubblicazione oserei dire terapeutica, contro la povertà disarmante del dibattito pubblico contemporaneo e contro il trionfo di molta letteratura turistica o neo rusticana, soprattutto riguardo al sud.
Certo, quando si guarda ad autori così importanti del recente passato, il rischio della facile nostalgia è evidente ma è altrettanto evidente che questi scrittori sono ancora oggi un esempio di quello che la letteratura può dire ad un paese come il nostro, per metterlo di fronte a sé stesso.
Tutto in questo carteggio colpisce, anche i semplici indirizzi che ci fanno pensare con tenerezza alla ricerca delle “città del mondo” in Sciascia, come alla visione sempre universalistica di Calvino.
Volevo riportare in particolare tre lettere. Due riguardano Il giorno della civetta. La prima lettera, del 2 ottobre 1959, in cui Sciascia affronta il tema dei doveri della scrittura, del dovere della verità:
Questo racconto, cui ancora lavoro, mi dà tanto fastidio per quel che posso e non posso dire. Parliamo tanto, in astratto, della libertà della cultura: vorrei se ne parlasse un po’ terra terra – dire che vogliamo il diritto di rappresentare il poliziotto imbecille, il questore fascista (o mafioso), il magistrato corrotto, il carabiniere che ha paura. Arrivederci. Affettuosamente, L. Sciascia.
Parole sempre vive, sempre scomode a noi stessi e alla reputazione della letteratura sempre in bilico tra assolutezza e ripiego.
Le tante idee sulla letteratura
C’è poi la lettera di Calvino del 23 settembre 1960 con il celebre giudizio, sempre su Il giorno della civetta, che molti conosciamo ma forse non ricordiamo abbastanza:
Caro Sciascia, letto Il giorno della civetta. Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario, su di un problema, dando una compiuta informazione su questo problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico e nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo, e un polso morale che non viene mai meno.
Di fronte a queste parole, emerge, se ce ne fosse ulteriore bisogno, in primo luogo la grandezza critica di Calvino, diretta, profonda, insinuante. In seconda battuta, come non rimpiangere le tante idee sulla letteratura che possiamo con facilità leggervi? La scrittura sempre proiettata sui guasti della società, il taglio analitico del saggio unito a quello visionario del racconto e, soprattutto, lo sguardo sull’uomo che è contemporaneamente sguardo sull’ambiente, sul contesto, si direbbe. Calvino descrive la Sicilia di Sciascia con una chiarezza disarmante: un mondo letterario a tratti aforistico che, nel contempo, rifiuta la furbizia del colore locale, con un uso della lingua, anche regionale, sempre rivolto alla ricerca del senso e mai allo svolazzo.
Tutti i riferimenti sono voluti.
Quel che ci ricordano
Un’ultima lettera mi piace riportare. Calvino la scrive nel 1971 allo Sciascia già impegnato con l’avventura Sellerio e che ha proposto al suo interlocutore uno scritto per la pubblicazione dei Mimi siciliani di Francesco Lanza:
Caro Leonardo,
Mi sono arrivati i volumi di Lanza. Figura d’intellettuale e scrittore assai interessante e che meriterebbe d’essere più nota e studiata. Ma quanto a me, mi domandavo come potevo impostare un discorso, e stavo per rinunciare. Quando mi sono accorto che non sul Lanza ma sulle storielle in sé, su questo particolare repertorio di storielle di feroce denigrazione campanilistica, mi veniva da scrivere un sacco di cose. E già ho quasi steso l’introduzione, che conto di mandarti il mese venturo.
Sciascia e Calvino (e Pasolini) restano le voci più classiche del secondo Novecento italiano. E continuano a ricordarci che la letteratura deve essere sogno, ma feroce, implacabile, ineluttabile sogno. Buona lettura.
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