Con “Il frutteto” lo statunitense David Hopen dà fiato alla tradizione della narrativa ebraico-americana e lascia pensare che in futuro possa segnare un’epoca. la sua opera è una campus novel che non perde di vista la tradizione religiosa ebraica. Il protagonista Ari cambia città e scuola, passando da un ambiente ultraortodosso a uno molto più secolare…
Quando all’ambizione evidente fin dalle prime pagine di un romanzo corrisponde un risultato all’altezza delle aspettative fino alle ultime pagine, si può anche azzardare, si può anche masticare qualche iperbole e sputarla fuori senza troppi complimenti. Classe 1993, studente di giurisprudenza, e giovane scrittore con un’opera prima dalla lunghissima gestazione, lo statunitense David Hopen potrebbe segnare un’epoca, ha le carte in regola per farlo. Ha cesellato con maestria il primo tassello di quello che potrebbe essere un corpus fondamentale. Come ha fatto? Ridando fiato alla narrativa ebraico-americana, rivitalizzando la tradizione del campus novel (da John Irving a Donna Tartt, passando per Michael Chabon), attualizzando la parabola del classico romanzo di formazione, senza perdere di vista Talmud e Torah, come non avevano fatto i grandi del secolo scorso, in linea, invece, con l’interesse manifestato da alcuni “fratelli maggiori” di Hopen, come Englander e Foer (si pensi soltanto alla pubblicazione di una loro nuova versione della Haggadah).
Dai precetti alle seduzioni
L’opera prima di David Hopen è stata intercettata in Italia dalla casa editrice Nutrimenti, che la pubblica con l’acuta traduzione di Nicola Manuppelli. Il frutteto (576 pagine, 24 euro) di David Hopen è un romanzo indimenticabile che accompagna il diciassettenne Aryeh Eden, detto Ari, dai confini di un mondo a parte a un perimetro di tutt’altro tenore, da Williamsburg, quartiere ebreo ortodosso di Brooklyn, all’immaginaria Zion Hills, vicino Miami, in Florida, una specie di paradiso, probabilmente questo il riferimento del titolo (come nel più recente romanzo di Eshkol Nevo) al racconto mistico forse più famoso del Talmud, il Pardès, appunto il frutteto. A causa della nuova vita professionale del padre, costretto a cambiare lavoro, il giovane Ari sperimenterà , dopo un mondo di precetti e regole religiose, un pianeta opposto, dopo lo studio quotidiano della Torah, le seduzioni e contraddizioni della nuova vita, che incrineranno la precedente o, almeno, la metteranno in crisi. Tra queste pagine, che filano veloci come il vento, riecheggiano in un complesso equilibrio letteratura, filosofia e religione, e – ricordiamolo – sono pagine non di un navigato “volpone” della forma romanzo, ma di un esordiente assoluto.
Il dolore annegato nei cuori
Nella nuova realtà scolastica – un’accademia ebraica che molto si discosta dalla yeshiva dalle regole ferree dove si è formato – Ari, inizialmente impacciato e per nulla vestito alla moda, si confronta con menti brillanti e profonde (che si interrogano su Dio, sulla morte, sulla colpa, sul dolore), coetanei problematici e audaci (che ricordano quelli del primo romanzo di Donna Tartt), e con l’affascinante rabbino Bloom. E poi auto, feste, piscine, non mancano le distrazioni (anche il primo amore, la bella e malinconica Sophia Winter fa girare la testa ad Ari e non solo…) che fanno a pugni con la devozione religiosa; frequentando Noah e l’enigmatico e carismatico Evan (tra miticismo e ribellione, anche per la morte della madre da elaborare…), rampolli della scuola e allo stesso tempo allergici alle regole, Ari finirà per fare esperienze edonistiche ed estreme, comportamenti che sono figli di tanto dolore annegato nei cuori dei protagonisti, finirà per provare a capire come fede e tradizione possano confrontarsi con modernità e contemporaneità, con la libertà: un tema non nuovo, per molti versi generazionale, ma che affrontato nel 2023 si dispiega in forme nuove, molto interessanti. Il protagonista è un classico outsider da romanzo americano, ma quel che gli accade, quello che vive, studia e pensa ha pochissimi precedenti.
Che cosa potevo dire della mia vita? Diciotto anni di piccole evidenze che mostravano che ero una persona reale, qualcuno che voleva delle cose, sentiva delle cose, riconosceva il vuoto. A volte potevo nascondermi, fingendomi una persona completamente diversa. Altre volte non ci riuscivo. Mi chiedevo se anche Evan si considerasse informe, in bilico tra anonimato e onniscienza, capace di rimpicciolirsi espandersi nel nulla.
Da punti deboli a qualità
Il risultato finale è un romanzo magnifico, sofisticato e debordante, anche imperfetto e in certi tratti per nulla plausibile, se non incoerente, in cui tutto abbonda, figure magnetiche e manipolatrici, digressioni narrative, divagazioni teologiche e filosofiche, dialoghi altissimi e talvolta artificiosi, ricerca dei piaceri attraverso l’ambizione e la ricchezza. Ma quelli che possono apparire come punti deboli del libro di David Hopen, alla distanza si rivelano qualità. Quello che può sembrare caos, è la bellezza complessa di un romanzo come non se ne vedevano in giro da un po’. Un libro che tiene più in considerazione la letteratura che la realtà. Ed è soltanto un bene che sia così…
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