Un po’ romanzo, un po’ raccolta di racconti, “L’affare del Danso e altri cunti” di Raffaello Di Mauro, che non ha i difetti di tanta narrativa grossolana made in Sicily, e non dimentica la tradizione migliore. Una storia in cui si alternano tragico e comico, attraverso figure che cercano di barcamenarsi tra le piccole e grandi angherie del fascismo
Una voce nuova dalla Sicilia, una miccia di ricordi familiari che non prende il sopravvento, ma serve solo come trampolino di lancio per una tensione narrativa che straripa in più direzioni, figlia dell’immaginazione, della libertà, della bravura. Un libro ibrido, un po’ romanzo, un po’ raccolta di racconti, è quello a cui ha dato vita Raffaello Di Mauro, nativo di New York, ma tornato sui passi dei propri avi e stabilitosi in provincia di Catania, in quella Piedimonte Etneo che fa da proscenio al suo gustosissimo volume.
Isola uguale a se stessa, ma nuova
L’affare del Danso e altri cunti (284 pagine, 16,50 euro), pubblicato dalla casa editrice 21lettere che drizza sempre le orecchie davanti alle opere di qualità, è il libro di Raffaello Di Mauro che non può passare inosservato. Non ha i difetti di tanta narrativa isolana grossolana e folkloristica, ma non dimentica la tradizione migliore. E fa i conti con emigrazione (gli italiani nelle miniere, gli scontri con gli irlandesi) e fascismo, tra America (poca) e Sicilia (tanta). I protagonisti? Un ricco emigrato vedovo di ritorno a casa, col solo obiettivo di riappropriarsi di un podere con vista sul mare, il Danso, e poi un podestà prepotente e arrogante, ma sfortunato al gioco, braccianti agricoli, preti (buoni e cattivi), sensali, sindacalisti, maestri, carabinieri, fascisti di bassa manovalanza. Tra riti religiosi e lotte operaie, tra roba e ingiustizie, viaggi rocamboleschi, spedizioni punitive e funerali, con un sapiente dosaggio di vari registri (dal tragico al comico, attraverso mille sfumature), Raffaello Di Mauro fa centro, con una Sicilia sempre uguale a se stessa, eppure nuova.
Sguardo fresco, lingua contaminata
Rocco Sapienza, fuggito dagli Stati Uniti all’interno di una bara, è il motore immobile della vicenda, ambientata prevalentemente nel 1934. Lo seguiamo in quella che è una rinascita individuale, oltre che nell’ambito sociale del piccolo centro. Sullo sfondo del peggior periodo storico del Novecento e non solo, attorno al protagonista ruotano figure che cercano di barcamenarsi tra le piccole e grandi angherie del fascismo. Lo sguardo del narratore è brillante e fresco, prova (e riesce) a strappare alcuni sorrisi, senza smettere di fare riflettere sulle tragedie del secolo breve (si pensi agli episodi del prologo, gli unici riconducibili alle vicende familiari dell’autore). Il dialetto è presente, come qualche termine anglofono, contaminano l’italiano, ma non lo dominano, non lo stravolgono.
Pessimo orizzonte
Da un microcosmo siciliano all’ombra dell’Etna ci si guarda alle spalle e al futuro con eguale timore. E nonostante vari pezzi del puzzle finiscano per andare al posto giusto, si avverte la puzza di bruciato che arriva dal futuro, il buco nero della guerra mondiale all’orizzonte. Se non sono del tutto e tutti vinti, in senso stretto, i protagonisti di questa storia corale, una cappa oscura e minacciosa staziona sopra le loro teste.
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