Il delitto del piccolo Simone in “Trento 1475 – Storia di un processo per omicidio rituale” dello storico Ronnie Po-chia Hsia è un libro che indaga su chiunque, su qualunque coscienza, non cercando dei colpevoli ma dei responsabili. Simonino è ucciso tre volte: nel misterioso delitto, nella serie successiva di delitti compiuti su altrettanti innocenti, e nella strumentalizzazione che se ne fece. Una nuova puntata della rubrica Area 22 (qui tutta la serie…)
L’immaginazione è motore di molte cose. Può esserlo dell’arte, della musica, della poesia. Può essere una forma d’amore, quando si racconta una favola ai bambini per farli addormentare. Può diventare, nel cuore di un santo, un’impalcatura di immagini e di sostegni che ne sospingano l’anima fino ai bordi dell’infinito. Per uno scienziato può essere un intreccio di ipotesi, di equazioni, di possibilità meravigliose, tutte da verificare.
Per un assassino può essere un armamentario di idee perverse su come perpetrare un omicidio. Per chi non sa come si sia svolto questo omicidio, l’immaginazione può diventare una cieca accusa scagliata come una sassaiola su un facile gruppo di gente inerme. Per questa gente inerme, l’immaginazione può diventare la possibilità di sfuggire al dolore e, insieme, l’orrore a spirale di una verità ad acta, che trascini nel baratro tanta altra gente.
Per uno storico e scrittore come Ronnie Po-chia Hsia, l’immaginazione diventa la griglia narrativa di un caso tanto lontano quanto vicino, riportato scrupolosamente nei suoi inquietanti passaggi, ricostruito nell’assemblaggio dei suoi elementi documentari e, non di meno, raccontato. Ma non come una favola, e non certamente come una favola ai bambini. Perché, nel lungo novero di questi soggetti di immaginazione, il piccolo Simonino non rientra. A lui, l’immaginazione è stata negata.
Un testo attuale
Trento 1475 – Storia di un processo per omicidio rituale (Giuntina, 207 pagine, 18 euro) è il classico lavoro di uno storico. Non importa qui se ebreo o meno, perché la storia non viene né circoncisa né battezzata, non celebra cresima né bar-mitzvà, non sceglie una verità ma si limita a rivelare la propria, quando – grazie a chi sa fare il proprio lavoro – le si toglie dal volto quel velo che, magari, impedisce di poterla osservare per quella che è; di poterne scorgere la nuda bellezza, nascosta persino tra le pieghe di un orrore inconcepibile.
È così che ci viene consegnata quest’opera, in cui si ricostruiscono i fatti di quel lontano e freddo 1475 tridentino, dove marzo non era ancora un mese così tiepido da dissuadere gli esseri umani dalle barbarie di cui essi soli sanno essere così capaci. Me lo immagino un marzo ansimante di raffiche gelate, quello in cui il corpo del piccolo Simone viene ritrovato dopo interminabili ore di ricerche; ritrovato nel canaletto di scolo di una casa ebrea, come ce n’erano altre nella Trento di quegli anni.
Fosse successo oggi, si sarebbe messo in moto tutto l’ingranaggio investigativo che conosciamo, al lessico del quale i telegiornali ci hanno tristemente abituati: il Gip, il Ris di Parma, e cose di questo genere. E se questo non fosse bastato a risolvere il caso, al limite qualche anno dopo Lucarelli avrebbe organizzato una delle sue puntate monografiche, come sa fare lui, per ricordarci la gravità di una sospensione, il peso di un caso rimasto irrisolto.
Ma nel 1475 non funzionava così. Il braccio secolare non prevedeva possibilità di sospensione per cui, lì dove c’era un cadavere sarebbe occorso un assassino, necessariamente. O più di uno. Già, perché non più di uno? La perversione diviene… occasione.
All’interno di quel fenomeno antisemita che oggi risulta ancora, alle orecchie di molti, solo un ritrovato ideologico, sono contenuti brani di storia vecchi di secoli, che ancora gridano il loro soffocato perché a generazioni che, venute molto tempo dopo, di quegli anni sono figlie inconsapevoli. Veniamo tutti da quella Trento del 1475: fa parte della nostra storia, una storia che ci cammina alle spalle, come un peccato che ci sta sempre dinanzi.
E come spesso capita, sfogliando un qualche album di antiche foto, che qualcuno si riconosca nello stesso sorriso o negli stessi zigomi del bisnonno, accade che leggendo un libro come questo, e riandando a quei fatti, a come si svolsero, a come erano diversi il senso di giustizia, di verità, di innocenza e di colpevolezza rispetto ad oggi, e a come però continuano a somigliarvi, succeda di ritrovarsi in una qualche inquietante continuità con quei fatti e con quei personaggi.
Un’opera storica mostra l’invecchiamento del mondo e, in mezzo a questo monto, l’essere umano come sempre giovane, come sempre somigliante a sé stesso, pur nella diversità dei costumi, delle forme, dei linguaggi.
Gli approcci a questa lettura sono due: o si legge con orripilato diniego tutto quanto vi è scritto, prendendone le dovute distanze e scandalizzandoci come se la cosa non ci riguardasse (e in questo, dunque, intimamente, rallegrarsi per non essere noi quelli di cui si sta parlando, ebrei o cristiani che siano), oppure, con maggiore e faticosa intelligenza, cercare di cogliere nella descrizione di fatti e persone, di relazioni e fenomeni sociali, tutti i geni incorrotti di un DNA che, con quattro eliche di secoli in più, continua a trovarsi in ciascuna delle nostre cellule. In altre parole, leggere e cercare di capire, per somme e sottrazioni, cosa ci sia oggi in quella Trento di cinquecento anni fa, e cosa vi fosse allora, in quella città, di tutto ciò che saremmo diventati noi.
La ricerca di una continuità a carissimo prezzo
Un cristiano, un prete (come me), un qualunque non ebreo, leggendo il libro, dovrebbe chiedersi chi è e cosa è diventato, o non è diventato, rispetto ai suoi analoghi dell’epoca; un ebreo, un rabbino, una comunità ebraica, leggendo il libro, dovrebbero chiedersi le medesime cose. Questo testo indaga su chiunque, su qualunque coscienza, non cercando dei colpevoli (a quello c’avevano già pensato in quei giorni) ma dei responsabili.
Perché si può essere responsabili pur nell’innocenza. E quanti innocenti, peraltro, condividono la colpa d’essere indifferenti! Il delitto del piccolo Simone, quella piccola morte che ne causò tante altre, è in realtà un delitto “oltre” quello di Simone dove, proprio a partire dalla “sua” morte, tante altre morti sono state confezionate come fascine di legna pronte ad essere date alle fiamme. Per questo il testo richiede non l’offerta di una confessione, come di chi – davanti a questo libro – sentisse il dovere (possibile) di costituirsi, ma di una professione di responsabilità, una abilità – cioè – a saper rispondere alla Storia come a sé stessi!
Il libro si gioca tutto su un equilibrio scabroso tra il dramma muto di questo bimbo, la cui storia rimarrà sempre misteriosamente a parte di tutto, e il dramma derivato – ma non in maniera diretta – dal suo, e fatto ricadere su un intero gruppo espiatorio. Persino le logiche della più semplice provvidenza, che (con un po’ di immaginazione) può arrivare a scorgere nel compiersi di un evento terribile la causa prima di una futura consolazione, risultano annichilite: la morte di Simone, impugnata ad arte, ha solo moltiplicato sofferenza e morte.
Ritornano sotto le righe temi cari alla riflessione del nostro tempo, come il noto adagio della Arendt. Se nei campi di sterminio la banalità del male fu la cieca obbedienza agli ordini, nel XVI secolo appare sotto le mentite spoglie della contestualizzazione di una prassi storica, e storicamente documentata.
Come a dire che, siccome in quegli anni non si era ancora giunti alla nostra attuale coscienza morale collettiva (ci si è giunti davvero?), allora determinati fatti erano comprensibilmente giustificabili.
Mi sembra ormai, e non solo davanti a questo triste e mai troppo lontano episodio, una risposta comoda. Perché se è vero che la storia procede per tappe, e in essa l’umanità cresce come un bimbo che, giorno dopo giorno, impara dai propri errori e dai propri tentativi, è altrettanto vero che la coscienza umana rimane un’istituzione sempre più adamantina rispetto alle contingenze di cui, nella storia, si riveste. Non posso credere (ed anche se ci credessi rinuncerei a crederci) che dinanzi ad una sofferenza oggettiva l’essere umano non sia capace di interrogarsi sul bene e sul male, in quell’istante, in quel sitz im leben, in quell’Esserci dell’uomo alle prese con la sua umanità. Il grido di una persona appesa ad una corda, e ripetutamente strattonata così da estorcerle una confessione, è sempre un grido. Un grido non conosce epoche ed etiche, non presuppone conquiste morali o politiche, non indaga sull’etereo fumoso delle contestualizzazioni storiche come argomenti attenuanti o dirimenti: è lo stesso, agghiacciante oggi come mezzo millennio fa. E un orecchio che lo ode non può scegliere d’interpretarlo in modo diverso da come un grido vorrebbe essere ascoltato. Il grido non ha accenti, non conosce le sfumature linguistiche dell’arcaico o del volgare, non rispetta i decibel imposti dai tabù conservativi delle classi sociali. È un grido e basta. Per questo, forse in uno slancio ultimo di umanesimo, ritengo che questo testo richiami alla responsabilità non storica ma umana, simpliciter. Una responsabilità capace di riconoscere, nelle odierne indifferenze ad altrettante grida, una continuità con i fatti di Trento.
Un vero storico, quando racconta una storia, racconta la Storia; e questa mette sempre l’uomo davanti a sé stesso. La Storia è l’Io della coscienza collettiva, che può parlare di sé al passato, ma sempre come un Io. Pertanto, chi scegliesse di leggere questo libro, leggerebbe in ultima istanza di sé stesso, un sé di tanti anni fa, ma senza il quale non ci saremmo noi, così come siamo.
Fenomenologia dell’inquieto
Se incredibilmente brutale ci appare il metodo con cui furono eseguite le indagini (se di indagini si può parlare), ancora più mortificante risultano gli effetti. No, non le condanne a morte, quelle ce le aspettavamo, se le aspettavano i sospettati fin dal primo giorno… Mi riferisco a qualcosa di ancora più terrificante: il fatto che, pur di non soffrire, un uomo sia costretto a dover scegliere d’inventare una menzogna che incateni altri. Una danza di bugie, dunque: le bugie di chi accusa, le bugie di chi ha paura. Tutto per la verità, naturalmente, in un totemtanz talmente inverosimile che, sapere quanto è storico, fa accapponare la pelle.
La verità, custodita dal solo e innocente segreto di Simonino, si decompone insieme a lui sul palcoscenico di un orrore ostentato, ideologico, strategicamente “usato” prima e dopo l’uso. Simonino è ucciso tre volte: nel misterioso delitto compiuto da qualcuno, in tutta la serie successiva di delitti compiuti su altrettanti innocenti, e in terza battuta proprio nella strumentalizzazione che se ne fece.
Al punto che, quando si legge tra le pagine il resoconto di un qualche sprazzo di umanità che, nonostante tutto, continuava a sopravvivere anche in quel luogo e in quel tempo così apparentemente lontani dal vero, ma terribilmente veri, ci si sente confortati e il gioco della continuità può attingere un po’ di ossigeno, può dirsi: quella parte di umanità c’è ancora. Ma è una consolazione transitoria, e non lo dico per calcare la mano sul pedale dell’orrido: non è un libro fatto per consolare. Nessuna riflessione può mai solo consolare. Prima viene sempre l’inquietudine, di cui questo testo è un emblema.
Se una qualche consolazione possa giungere oggi dal saperci, forse, più umani, più civili, più consci, affinché si sia certi che di una vera consolazione si tratta, e che non sia piuttosto un’illusione di tranquillità auto-procurata, si passi prima da questo libro, e da libri come questo.
Se per una qualche ragione vi fosse oggi un motivo per riconoscerci migliori, ciò non potrebbe fare a meno di percorrere certi sentieri che, semplicemente, vanno ripercorsi ad intervalli regolari, come le pagine di un album fotografico, per capire chi siamo e come siamo stati. E come potremmo essere! Perché c’è sempre una Trento dietro l’angolo, c’è sempre un gregge di capri espiatori pronti ad essere giustiziati, e c’è sempre un inconsapevole Simone, che non appartiene a nessuno se non alla nuda e innocente verità di sé stesso; quella Verità a cui tre volte chiediamo perdono.
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