La morte di una vedova, il rendez-vous dei figli ne “La strada degli ulivi” di Clelia Attanasio, che sa andare ben oltre con una precisa idea di scrittura. Ecco come strattona il lettore a furia di deragliamenti narrativi…
Se avete visto The Fabelmans, l’ultimo film di Spielberg, vi è rimasta impressa – ne sono certa – la scena finale. Quella in cui il giovanissimo protagonista arriva al cospetto del suo idolo, John Ford. Sta nel sancta sanctorum del grande regista americano. Il suo sguardo ammira, estasiato, le locandine dei colossal che pendono dalle pareti dell’ufficio. Il Maestro, allora, in una sorta di sghembo colloquio di lavoro, lo interroga sui punti di fuga prospettici di alcuni dei manifesti e gli impartisce la prima, indimenticabile lezione: «Quando l’orizzonte è in alto, è interessante. Quando è in basso, è interessante. Quando sta nel mezzo, è una palla mortale! Capito?».
Una morte e un ritorno
La strada degli ulivi (87 pagine, 15 euro) di Clelia Attanasio, edizioni Eretica, è l’occasione giusta per sfoggiare la citazione. Cercavo, infatti, una formula subitanea che restituisse l’idea di scrittura che affiora dal romanzo. Qualcosa che riassumesse in poche parole le abilità, le competenze, la destrezza della scrittrice campana, già finalista al Premio Campiello Giovani del 2015. Le parole di Ford sono, senza dubbio, calzanti.
Con La strada degli ulivi Clelia Attanasio ci porta a Camporella, paese del cilentano che evolve, fin dalle prime righe, a topos che identifica ogni paese della provincia campana dove si «incrociano sempre gli stessi sguardi e si prende sempre la stessa aria». Qui, Rachele Mele, l’ottantaduenne vedova Chirichella, è appena morta. Il figlio Ciro telefona a sua sorella Angela comunicandole la notizia. Il ritorno a casa della “figliola prodiga”, che ha dissipato l’affetto e la devozione verso la famiglia scegliendo di vivere a Napoli anche dopo il completamento degli studi universitari, riapre i cassetti della memoria di Ciro, lo fa franare in una dimensione incognita e inaccessibile, disseminata di rancori adolescenziali, di conflittualità mai appianata, di presunti mancati risarcimenti emotivi.
Questo il riassunto della trama, catturata frontalmente, ovvero, per dirla alla Ford/Spielberg, dal campo di osservazione di mezzo.
Sembra…
Tutto ciò che sono riuscita a realizzare è un disegnino didascalico e scontato, privo di estro. Per certi versi rassicurante in quando di agevole immedesimazione, ma pur sempre uno schizzo inibito nello slancio immaginativo ed emotivo, che appiattisce e schiaccia la storia entro i confini di una vicenda di conflittualità familiare simile a molte altre già lette.
Cosa fa, invece Clelia Attanasio per scrivere queste ottantasette pagine con la massima resa di drammatizzazione? Comincia a girare intorno a Ciro, investito (ne sarà poi asfaltato) dell’incarico di narratore, in cerca di punti buoni da cui ispezionarne i ricordi e la psiche, da cui ricostruire il passato dei genitori, da cui esplorare l’universo di Angela.
… ma non è
Il primo punto, quello con cui apre il romanzo, coincide con la posizione da cui Ciro si propone al mondo. Posizione che, essendo Attanasio dotata di un “buon orecchio” narrativo, già qui è un gradino sopra al “punto di mezzo”. Per gli abitanti del “piccolo mondo antico” di Camporella Ciro è il fratello maggiore che si è assunto il ruolo di figlio tradizionale. Egli è la luminosità della presenza stabile che si contrappone all’oscuro dell’assenza da cui è offuscata Angela. È l’abnegazione dell’amore figliare antitetica al menefreghismo egoista della sorella. È, in un ribaltamento – per eccesso di attaccamento alla mamma – di ruoli patriarcali, colui che raccoglie l’eredità emotiva dei genitori, che si pone come depositario dei segreti della madre, si trasforma nel miglior amico di lei, nel fratello tardivo, nel badante affettuoso.
A pagina 21, però, quando il lettore ha già l’impressione di essere padrone dell’intreccio, di aver intuito dove si vada a parare, Attanasio monta su uno sgabello e inserisce nel racconto la prima di una serie di lettere di Rachele al marito Antonio, tratta da una corrispondenza tra i due antecedente le nozze, e sposta in alto il nostro benedetto orizzonte. Poiché in narrativa la percezione visiva si traduce in partecipazione emotiva, salgono, in questo modo la curiosità, l’attenzione e l’immaginazione del lettore.
Da pagina 40 in poi, si va su di ancora un altro paio di gradini: il ritmo della scrittura è convertito da piano a febbrile. Non può essere altrimenti, dovendo assecondare l’esaltazione di Ciro nell’evocare il periodo universitario e la dedizione al progetto di scrivere un capolavoro ottemperando alla certezza avuta fin da bambino di possedere una intimità dal valore letterario assoluto, l’esigenza che lui sente di sottolineare le differenze tra sé e sua sorella.
Il finale conturbante
Arriva, infine, il deragliamento narrativo e Clelia Attanasio scende dal suo strapuntino per acquattarsi al suolo, e portare in basso, nel punto più basso possibile, l’orizzonte, dove sono sparpagliate le tessere del puzzle familiare da raccogliere. Il funerale è stato celebrato. Rimasti da soli nella casa ormai disabitata, Angela pretende di rassettare le stanze, arearle, pulirle. L’esito di questa operazione, percepita da Ciro come una vera e propria profanazione, sfocerà in un finale di romanzo aperto e conturbante, che tratterrà il lettore dentro la storia, pur guardandosi bene dall’essere asfissiante.
C’è un’ultima postilla che non posso tralasciare. Pare che l’aggettivo interessante, ultimamente sia tabù. Sminuisce – dicunt – i romanzi ai quali è associato. Interessante ha moltissimi sinonimi: singolare, stimolante, intrigante, appassionante, toccante. Talvolta traduce perfino il giudizio estetico di bello. La strada degli ulivi è interessante in tutte le sfumature che ho qui riportato.
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