È un breve poetico saggio, “Lost in translation” di Ottavio Fatica, per cui tradurre è vivere o giù di lì. Riflessioni argute ed eleganti sulle traduzioni e su chi le fa per mestiere, passione, vizio, interpretando segni, cercando parole e ritmo…
Traduttore di lungo corso e di eccellenti risultati, Ottavio Fatica è da poco tornato in libreria con la versione in italiano di un inedito di Louis-Ferdinand Céline, ritrovato in modo rocambolesco, e ora pubblicato da Adelphi: Guerra, uno dei libri più attesi dell’anno. Ne parla lui stesso nelle pagine conclusive di un piccolo “breviario”, pubblicato sempre da Adelphi, conciso e intrigante, in cui riesce, contemporaneamente, a ragionare di teoria letteraria e a sprigionare poesia. Non gli fa difetto certo l’esperienza su scrittori irrinunciabili, da Melville a London, da Yeats a Byron, a Tolkien. Le “lezioni” che riga dopo riga, parola dopo parola, gli hanno impartito questi giganti, si comprendono in fretta.
Da una sponda all’altra
Cesella parole e pensieri, Ottavio Fatica, in sei brevi pezzi, cinque dei quali concepiti per la messa in onda radiofonica: nel terzo (“Tradurre poesia in poesia”) capitoletto di Lost in translation (61 pagine, 5 euro) arriva l’immagine che tutto spiega e che inquadra la sua “vocazione” di traduttore, l’atteggiamento con cui si pone davanti a un testo.
Tradurre non è un’arte per chiunque, come ritenevano certi santi scriteriati, ai quali non bisogna chiedere intercessioni. A trasportare il verbo sulla sponda opposta – anche se in incognito, anche se non il verbo con la V maiuscola, anche se in corpore vili – s’impegna quel san Cristoforo in sedicesimo che è il traduttore.
Il traduttore come il santo che, ignaro, si carica Gesù bambino sulle spalle, per fargli guadare un fiume. Non è la sola metafora individuata per descrivere chi traduce per mestiere, passione, vizio. Altre ne tira fuori dal cilindro Ottavio Fatica, “sorretto” in qualche modo da Tolkien e da Kipling. Ma non togliamo la sorpresa a chi vorrà deliziarsi con queste pagine.
Il potere dei libri
Se cercate aneddoti… non ne troverete. Semmai riflessioni argute in prosa elegante. Per Ottavio Fatica (che di Adelphi è anche consulente e per Einaudi ha pubblicato due raccolte poetiche) tradurre è vivere, o giù di lì. Un atteggiamento, un moto dell’anima, un convincimento profondo che si sposa con la sete di conoscenza, con un eclettismo di fondo, con l’essere in grado di cogliere gli aspetti più profondi della lingua e con una piena consapevolezza del potere dei libri.
Perché sia letteratura occorre leggerla, è il lettore a farla vivere: rivivere ogni volta. Il cuore di un libro, diversamente da quello dell’uomo non cessa mai di battere del tutto, entra in una sorta di catalessi e nell’esercizio delle sue funzioni vitali, come la lettura e la traduzione, tornerà a pulsare.
Sono artisti misconosciuti, spesso, i traduttori, che pochissima visibilità (ma qualcosa sta cambiando in meglio) hanno in ambito editoriale. Masochisti, equilibristi, lascia intendere l’autore di Lost in translation.
La prosa non esiste
Questo piccolo saggio sarebbe piaciuto a un raffinato virtuoso della traduzione, Gesualdo Bufalino (quasi un erede dell’irregolare Lafcadio Hearn, di cui si legge nel volume di Ottavio Fatica), che in gioventù aveva provato a tradurre dall’italiano al francese Baudelaire, e che tra gli aforismi de Il Malpensante aveva incluso questo: «Il traduttore è con evidenza l’unico autentico lettore di un testo. Certo più d’ogni critico, forse più dello stesso autore. Poiché d’un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante». Amante a caccia dei vocaboli congeniali, della musica delle parole, un interprete dei segni, e dei sogni. Una figura irrinunciabile, rianimatore di volumi che altrimenti morirebbero, prigioniere di un ritmo e della poesia, visto che, medita e considera l’autore, la prosa non esiste.
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