Torna con puntualità svizzera Amélie Nothomb. “Il libro delle sorelle” è un racconto se possibile ancora più noir di quelli a cui la scrittrice belga ci ha abituati, tra modeste e piccole incandescenze del quotidiano e dei rapporti umani nei quali mostra, con sublime ironia e profondità, le spesso invisibili crepe
Mentre scriviamo su un romanzo di Amélie Nothomb, autrice per la quale esiste un vero e proprio culto, vissuta per i primi anni della sua vita fra Giappone, Cina e altri paesi orientali a seguito del padre diplomatico e barone belga, nonché rampolla di una delle famiglie più in vista di Bruxelles, c’è il rischio che ne stia uscendo un altro, anche se la cronologia che l’autrice si è data vuole che le sue opere escano in lingua originale entro la fine di agosto di ogni anno e di conseguenza in traduzione con qualche mese di ritardo. Per noi italiani Voland si occupa da sempre della traduzione e pubblicazione dei suoi romanzi, trenta e forse più ad oggi (è facile perdere il conto in questi casi e ad ogni modo pare che questi siano solo un terzo di quelli scritti e che abbia deciso di pubblicare). Così è accaduto anche per l’ultimo (?) che la casa editrice romana ha dato alle stampe lo scorso febbraio dal titolo Il Libro delle sorelle (113 pagine, 16 euro), tradotto da Federica Di Lella.
Parte di un unico disegno
In un passaggio di Il sol dell’Avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti in concorso al Festival di Cannes, il protagonista Giovanni (Nanni Moretti), un regista di mezza età in crisi confessa: «Faccio un film ogni 5 anni, dovrei farne di più» che ricorda in qualche modo il modus operandi di un altro fra i più apprezzati cineasti, Woody Allen sulla cui quasi compulsiva necessità di sfornare opere cinematografiche lo stesso si è soffermato in alcune interviste affermando che tutto ciò che facciamo è per allontanare la noia, l’angoscia e la morte.
Potremmo analogamente domandarci cosa spinga un’autrice già globalmente apprezzata e fra i romanzieri di lingua francese più letti al mondo, i suoi libri sono tradotti in oltre 45 lingue, a scrivere e pubblicare con una tale puntualità e costanza. Sul fatto delle 45 lingue e sul parallelo filmico morettiano e senza con questo voler sminuire la qualità della scrittura di Amélie Nothomb viene in mente un altro passaggio dell’ultimo film del cineasta romano, quello nel quale al Giovanni del film viene proposto un contratto da parte di Netflix durante un esilarante colloquio nel quale i manager della celebre piattaforma si vantano di diffondere i loro prodotti in ben 180 paesi, enfatizzando a più riprese il «in ben 180 paesi».
Quasi un format i romanzi della Nothomb, tanti piccoli pezzi di un’unica grande opera. Voland in chiusura dei singoli volumi inserisce infatti una breve sinossi di ognuno, perché fanno parte di un unico disegno, quello di una scrittura che vale la pena di assaggiare come tanti cioccolatini diversi. Opere che non prescindono dall’autobiografismo che ne è il tratto più caratteristico a partire dalle poco più di cento pagine di La Metafisica dei tubi, un’autobiografia scanzonata dei primi anni di vita dell’autrice che l’ha consacrata autrice di culto anche presso i nostri lettori. Il tutto è accompagnato dalle sfumature noir delle atmosfere e dall’ironia alternativamente sottile e caustica della sua scrittura. Amélie Nothomb ha trovato la sua formula, come i giallisti più celebrati, genere il giallo che va per la maggiore perché dà la sicurezza di una struttura consolidata, con i suoi commissari o poliziotti, oppure i legal-thriller, o qualche pseudo movimento letterario esoterico collettivo che sforna libri uno dopo l’altro. Con i libri di Amélie Nothomb è come trovarsi in un luogo esotico e sconosciuto, non sapendo cosa poter mangiare e magari se troviamo un McDonald ci catapultiamo dentro perché pensiamo che ci dia maggiori certezze.
Struttura consolidata, situazioni inquietanti
Il formato Nothomb, poco più di cento pagine, quelli che critici o commentatori vari definirebbero romanzi brevi o racconti lunghi o poco importa come, è una struttura consolidata, un prodotto letterario che per gli innegabili meriti della scrittura della sua autrice riesce sempre ad affascinare e al quale si abbina lo stile e il modo di mostrarsi in pubblico della sua autrice che l’hanno resa partecipe della sua notorietà: i suoi stravaganti cappelli, le labbra rosse che spiccano sul suo volto quasi spettrale, le lunghe vesti nere, la non celata passione per lo champagne, le pose da diva del cinema, tutte cose che non devono metter in secondo piano la qualità di quel centinaio di pagine che la scrittrice belga dà alle stampe con puntualità svizzera.
Il libro delle sorelle non fa eccezione. Nella fattispecie si tratta di un racconto se possibile ancora più noir di quelli ai quali ci ha abituati, tra i più recenti vale ricordare Gli aerostati (Voland 2021). Nell’ultimo da noi uscito ci sono morti per suicidio, indotti e diretti. Questi sono solo alcuni dei frutti avvelenati dell’amore, amori che sfociano nel patologico o che rappresentano come sempre ben tratteggiato dalla Nothomb, situazioni al limite in famiglie o contesti sociali che definiremmo borghesi ma nei quali si sviluppano ben presto situazioni insolite per non dire inquietanti.
Il fascino oscuro della familiarità
Nel caso di Il Libro delle sorelle il fascino oscuro della familiarità si manifesta nell’amore sopra le righe di due genitori, tanto da portarli nella loro luna di miele infinita a trascurare la figlia primogenita Tristane, la quale come conseguenza di un padre e una madre se non nemici indifferenti e incapaci di donare alle proprie creature quel pieno di affetto necessario, si troverà a fare i conti con le difficoltà di affrontare in modo equilibrato la vita adulta. Una passione amorosa fuori del comune quella dei genitori di Tristane, che ci fa sorridere nello stesso momento in cui ci inquieta per le sue nefaste conseguenze. Tristane troverà nella sorella Laetitia, più piccola di cinque anni di lei, quel regalo che forse in modo inconsapevole gli sprovveduti e “disfunzionali” genitori le hanno fatto. Il loro legame che virato al maschile ricorda quello dei protagonisti di Inseparabili, il romanzo di Alessandro Piperno già vincitore del Premio Strega del 2012, sarà indissolubile e accompagna i lettori per tutte le pagine dell’opera della Nothomb in corrispondenza di tutta la vita delle due protagoniste fino ad un inaspettato epilogo. Si domanderà Tristane. «Com’è possibile che un amore così grande come quello dei nostri genitori sia sfociato in un disastro simile». Laetitia le risponde: «Non è sfociato solo in questo disastro. Ha fatto anche nascere noi due. Il nostro amore è migliore del loro».
L’amore oltre
Le due sorelle sono a loro modo geniali: Tristane mostra una sensibilità fuori dal comune, parla con l’amata cugina morta tragicamente per effetto indiretto della sua anoressia (un altro dei riferimenti autobiografici del romanzo), eccelle a scuola e tutti si dicono convinti che diventerà Presidente della Repubblica, è un’appassionata di letteratura e andrà a studiare a Parigi «la Gerusalemme delle lettere francesi». Anche per questo incute timore nei suoi coetanei, mentre l’indifferenza dei genitori verso di lei che la marchieranno come una “bambina scialba” la accompagneranno per tutta la vita, a partire dalla tormentata infanzia, per passare alla preadolescenza quando fonderà insieme alla sorella e altri due membri un gruppo rock di componenti da record mondiale per età anagrafica, il racconto delle loro gesta è una delle cose più belle e divertenti del romanzo. Laetitia, più esuberante e sbarazzina della sorella maggiore le sarà compagna fra allontanamenti e riavvicinamenti lungo tutto il corso della vita a dispetto o forse proprio per effetto dei due genitori e del loro amore “disfunzionale” che crea intorno al romanzo una torbida atmosfera di sensualità morbosa, un amore nelle sue varie forme, passionale fra i due coniugi e fraterno tra le sorelle, che supera i limiti del plausibile e del socialmente accettabile, sconfinando nei territori dello strano se non del patologico che prende il via proprio dalle minuzie del quotidiano e dei rapporti umani, quelle impercettibili pieghe della normalità con le quali da sempre la Nothomb gioca nella sua scrittura, quelle modeste e piccole incandescenze del quotidiano e dei rapporti umani nei quali la penna di Amélie ci mostra con sublime ironia e profondità le spesso invisibili crepe, quali possono essere l’indifferenza di due genitori verso la propria figlia. Modeste o impercettibili crepe per queste ancora più difficili da sanare: «che si può fare contro la freddezza? Niente non è una cosa che non grida vendetta al cielo. È una sofferenza modesta» (dal romanzo).
I dialoghi serrati, con un ritmo e una puntualità ferrea, l’ironia, la torbida atmosfera quando più in modo palese quando più sottotraccia nelle pagine del romanzo, come in tutti gli altri di Amélie Nothomb, fanno auspicare che dopo questo, ai trenta e più romanzi già usciti, molti dei quali hanno ricevuto importanti riconoscimenti, Primo sangue dello scorso anno vincitore ex-aequo al Premio Strega Europeo, Sete, uno dei suoi titoli più conosciuti, è stato secondo al premio Goncourt, il più prestigioso premio francese, ne possano seguire se non altrettanti almeno un numero sufficiente che possa ancora soddisfare i desideri dei lettori verso le cupe, beffarde e umoristiche storie della stravagante Amélie, al secolo Fabienne Claire Nothomb.
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