È una piccola rivoluzione scrivere del rapporto fra un padre e un figlio prima atteso e poi appena nato. La realizza “Ombelicale” di Andrés Neuman, libro di brani brevissimi, di idee che vorticano in testa a un padre non giovanissimo, tenero e preoccupato…
Chi ha a cuore la letteratura contemporanea non può perdere di vista l’opera dell’argentino Andrés Neuman, uno dei tanti latinoamericani che hanno scelto la Spagna per vivere in Europa e mettere un oceano di distanza con la propria terra natale: tecnicamente lo fecero i genitori, in fuga dalla dittatura. Neuman, negli ultimi anni, in tempi relativamente brevi, è stato capace di scrivere uno straordinario romanzo totale come Il viaggiatore del secolo (qui l’articolo), ma di eccellere anche nell’arte del racconto e della poesia, come dimostrano i suoi tanti titoli tradotti in italiano per Einaudi o Sur (la paternità della sua scoperta alle nostre latitudini spetta e va riconosciuta però a Ponte alle Grazie).
Un tentativo senza melassa
Nella sua più recente apparizione in libreria per Einaudi, Ombelicale (114 pagine, 15 euro), tradotto ancora da Silvia Sichel, si concede un’incursione tra vicende personalissime. Merito della nascita di un figlio. Quando gli artisti, dai premi Nobel agli autori di meravigliose canzonette, dedicano esplicitamente qualcosa agli eredi in arrivo o nati da poco, il rischio che la melassa e la retorica abbiano il sopravvento. In questo caso lo scrittore va al cuore della questione. In modo lieve e frammentario. Non è un diario di bordo, è un tentativo di trovare le parole giuste, abbozzi di frasi, tafferugli interiori, idee che girano e rigirano in testa. Prima e dopo la nascita,
Voci e unghia
Prima si legge, ad esempio:
C’è un po’ di ombelicale nelle corde vocali che pronunciano il tuo nome? Ti si accordano i geni se risuonano? Agisce da diapason quella placenta? Riconoscere le voci è amore?
E dopo che il piccole è venuto al mondo Neuman scrive:
Mi metto a tagliarti queste unghie infinitesimali che non capisco come abbiano preso forma, le limo con pazienza immateriale, le riduco di pagliuzze, sfarfallii.
Capaci di appigliarsi a ciò che amano ma anche di farci male o lesionarti. Pronte per la vita.
Rimpianti e vulnerabilità
La paternità può diventare il rimpianto di non essere una divinità («Se potessi sapere cosa ti fa male, sarei più di un padre») e di non essere più giovane («Ogni volta che ridi si infrangono le vetrate che trasporto in segreto… Io rido perché tu ridi: hai partorito l’umore di un quasi vecchio. Nel tuo respiro tremola il mio»), di avere consapevolezza della morte. In cento piccoli paragrafi che sono distillati di poesia mai banale, e che accompagnano il primo anno di vita di un invisibile cordone ombelicale che lega padre e figlio, una connessione intensa cresce. E il bimbo, Telmo, finisce per diventare un involontario maestro di un uomo sorprendentemente tenero e vulnerabile: «Allora mi innamoro disperatamente del caso che ti ha fatto chi sei, che mi ha reso questo protettore indifeso».
Quasi un tabù
È una sfida vinta, quella di Andrés Neuman. Di libri sulla maternità o, in generale, sulla genitorialità ne sono stati scritti moltissimi. Uno sul dialogo silenzioso fra un padre e un figlio è una piccola rivoluzione, quasi un tabù spezzato. Non un luogo così esplorato lo spazio fra papà e figlioletto e che per l’autore argentino è quasi (brevi gli accenni alla pandemia o alla dolorosa scomparsa di una nonna) l’esclusivo “terreno di gioco” col giovanissimo erede. La conferma di un talento fuori dal comune, che nei prossimi decenni ha tutto per continuare a spiccare sulla scena internazionale.
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