Di un amore e di una ricerca scrive Elisa Fuksas nel suo libro “Non fiori ma opere di bene”. La protagonista è una donna che ama, anche ciò che non si vede. Ama anche indagare su ciò che non si vede, non solo perché è invisibile agli occhi ma, soprattutto, inaccessibile alla memoria. Elisa ama un nonno che non ha mai conosciuto…
Della scorsa recensione dedicata ad Elisa Fuksas, e al suo Ama e fai quello che vuoi (che fu un inaspettato momento di grazia letteraria, qui l’articolo), ricordo di aver utilizzato due particolari espressioni che, in quella circostanza, mi aiutarono a fare sintesi di quel romanzo. La prima diceva così: Questo libro è un inno alla ragionevolezza, che rinasce dalle ceneri della razionalità; la seconda, alla fine dell’articolo, così recitava: Il tempo, oltre certi istanti, esiste solo insieme a Colui che ami.
Perché mi sono venute in mente queste frasi? Uno, perché – sostanzialmente – valgono anche per il libro di cui parlerò adesso (e ciò mostra con gioia che la nostra autrice ha già una sorprendente identità letteraria, capace di mutare attraverso i soggetti narrativi ma senza mai contraddire se stessa; senza, peraltro, che manifesti particolari sforzi a non contraddire se stessa: le viene naturale); due, perché tali espressioni, lievemente rimodulate, potrebbero forse aiutarci ancor più ad entrare in questa seconda storia, così originale anche se – a pensarci bene – così drammaticamente ordinaria (e capiremo perché); così intelligente senza che se ne perda neanche un frammento di umanità: Non fiori ma opere di bene (397 pagine, 19 euro), edito da Marsilio come il precedente.
Vi è una razionalità anche in ciò che appare irragionevole
Se un vostro amico, se vostro figlio, un bel giorno, cominciasse spasmodicamente a frequentare un cimitero, a farvi continue domande su tombe e burocrazie mortuarie, comincereste – dopo aver per qualche tempo assecondato la sua curiosità – a sospettare che forse potrebbe esserci qualche problema… che tutto ciò non sembri “razionale”, con l’accezione materiale e immanentista che normalmente diamo a questa parola. Perché la associamo immediatamente all’esperibile, al replicabile, al visibile, spogliandola della sua anima metafisica, sua logica essenziale e originaria. Anzi, usando proprio un’espressione di Elisa, direi che, se l’origine dell’origine esiste, allora quella della razionalità è proprio nell’Invisibile, in ciò che non puoi immediatamente esperire con i sensi, in ciò che un laboratorio non può darti, ma solo qualcosa che abita dentro di te e ti permette di ricreare una linea di tempo che, dal presente, ripercorra sentieri remoti. C’è un solo modo possibile per averla vinta su un’(apparente) ossessione: lasciarsi sprofondare – seppellire – dentro il suo senso più ancestrale, più originario, appunto. In questo modo anche la morte diventa un’origine, una propulsione. Se il cratere di un buco nero può diventare un ulteriore big-bang, tutto dipende da questo. Da ciò che ci porta al secondo snodo.
Anche Elisa Fuksas se l’è chiesto: che cosa mi interessa di questa storia? Perché si cerca un morto? Non è forse un passaggio fondamentale di quella catena che, ben più complessa (e complicata) di un DNA, chiamiamo VITA? I morti ci servono per vivere, come i ricordi; allo stesso modo in cui i vivi, come i progetti per il futuro, ci servono per morire, e per morire bene. L’oblio è un’indeterminatezza già troppo insistente di per sé, senza che ne debbano allungare le gittate in direzioni passate o future. Senza che si debba costringere l’oblio a diventare un tempo consueto, lineare, abitudinario.
Se ami qualcuno, crei un tempo per lui
E anche un libro, che è tempo nel tempo. Anzi, che nel tempo diventa una parentesi di eternità.
Ora, Elisa è una che ama, indiscutibilmente. Ama i cani; ama i paesaggi (non solo quelli che sono già paesaggi perché sono belli di loro, ma anche quelli che diventano tali per come lei li guarda e li descrive); ama le lontananze (come S. Teresina!); ama certe regole perché, amandole, le permettono di non trasformarle in abitudini; ama le parole e i giochi che le parole fanno rimbalzando dalla bocca della gente; ama gli amici, perché sa quanto è difficile amarli, e quanto certuni lo meritino o per altri sia necessario, come è necessario per lei; ama quei concetti che ricerca sempre con insistenza bambinesca e mai infantile (come li cercava da bambina in modo maturo e mai vecchio), perché sa d’esserne strutturata; ama gustare le cose e le persone; ama non mortificarle mai, neanche se ha con loro un rapporto di grande intimità e complicità. Ho visto un’intervista di Elisa in cui c’era anche Massimiliano, suo padre, che descrivendo un elemento del libro usava un quattro invece di un nove: Elisa non ha più cambiato quel numero, lo ha fatto diventare un tot… Piccole cose, ma che dicono tanto.
Elisa è una che ama, anche ciò che non si vede. E se c’è una cosa che ama incredibilmente è indagare su ciò che non si vede, non solo perché è invisibile agli occhi ma, soprattutto, inaccessibile alla memoria. Elisa ama un nonno che non ha mai conosciuto e che, in cifra certamente minore ma simile, neanche suo padre ha mai veramente conosciuto. Perché aveva solo sei anni quando è morto; ed essendo morto giovane questo nonno non solo è morto, ma la morte è diventata, in qualche modo, la sua caratterizzazione immediata. Il che è come morire in maniera totale. E questo, Elisa che ama, non può permetterlo.
Non si capisce bene se il motore primo di questa ricerca sul nonno sia un atto perfettamente consapevole o inconscio della protagonista/autrice; forse tutte e due. Se la sua consapevolezza è il lucido e deduttivo operare di Sherlock Holmes, il suo inconscio le mostra, esattamente come Watson, quell’elementare che solo dopo il detective rivela come tale; se la sua consapevolezza e la sua razionalità la appesantiscono come un Sancho Panza che va dietro qualcosa senza neanche sapere cosa sia, quel qualcosa che da dentro la invita a continuare somiglia al folle e misterioso Don Chisciotte, che non sempre è comprensibile ma che, in una qualche maniera, insegue una sua logica parallela e infallibile, anche nella visione.
Così Elisa crea un tempo per il nonno, per quel nonno che di tempo ne ha avuto così poco. E creandolo per lui lo crea per se stessa e per noi, regalandoci qualcosa il cui spessore di intimità letteraria lascia stupefatti.
Trascrizioni di un’anima
Elisa scrive con autentica onestà comunicativa, al punto che certe volte credo arrivi a parlare di se stessa senza neanche accorgersene, come avverrebbe in una normale conversazione. Se ogni libro di Elisa è una parte di lei – non solo come opera letteraria, ma come “contenitore” di lei che l’ha scritto – allora ognuna di queste pagine ha un suo linguaggio del corpo: segni che ti rivelano Elisa senza che Elisa lo sappia; non foto ovali su rigide lapidi, ma parole ammiccanti, segni autonomi. Ti sembra di sentirla parlare, vorresti parlarci, te ne viene senz’altro il desiderio; e offrirle biscotti, nutella e the al limone con tanto zucchero, magari in un autogrill sull’Aurelia, dove le racconteresti di una ragazza che ha scritto una tesina sul suo cognome! Le ricambierei il favore d’essere rimasto così tante volte meravigliato. Certe chiacchierate espandono un “luogo immaginativo”, la scena di un libro, trasformandolo in paesaggio.
E certi paesaggi, come dicevo prima, promettono una bellezza intrinseca che solo uno sguardo altro riesce a tirare fuori dal banale. Mi sono commosso alla descrizione del tragitto che porta al Verano! Non pensavo di potermi emozionare alla descrizione di una strada che costeggia la Stazione Termini e finisce col condurti alle porte di un cimitero! Quanta bellezza, disciolta in quelle immagini che sono tutte anima, che sono “trascrizioni” di un’anima! In fondo nient’altro che spazzatura, povertà, indigenza, e in tutto ciò – però – una Trascendenza così presente da farti sentire complice di una universale indifferenza; ma è consentita la via d’uscita di un riscatto, che si nasconde proprio in questo desiderio di ricerca che, inevitabilmente, amplifica i sensi e li rende sensibili. L’abitudine, nemica giurata dell’uomo in ricerca, diventa qui paradossalmente una complice perché rende visibile, nella dimensione del quotidiano, ciò che appartiene alla sfera dell’invisibile (l’abitudine questa volta mi pare una cosa buona): solo abituarsi alla strada per un cimitero fa dell’abitudine qualcosa di buono; come a dire che, peggiore dell’abitudine, c’è solo la morte. Il ribaltamento si ha con la ricerca della vita, sospinta da un desiderio: lì l’abitudine perde la sua essenza mortifera e diviene strumento di mimesi: rende la mia presenza qui (al cimitero) meno inquietante e solenne, non ti introduce alla morte, ma traduce quest’ultima in qualcosa di quotidiano e di vivo che puoi accogliere dentro di te come… un apostrofo.
Due occhi illuminati da un desiderio, quelli di Elisa Fuksas, che cercano un’immagine e un nome, e il desiderio li trasfigura e li rende capaci – mentre cercano il loro oggetto – di “vedere” mille altre cose. E di farle vedere a chi legge quelle pagine. Nella Capitale sono stato troppe volte per non lasciarmi accarezzare da quella luce arancione dell’autunno romano che spesso sono andato a cercare persino alla fermata di un tram. Pensavo fosse un segreto di bellezza, un’intimità tra me e Roma. Scopro che è un segreto condiviso. Lo scopro proprio in queste descrizioni.
Come una scatola rossa
Alcune letture, oltre la bellezza della loro storia, ti stupiscono anche per ciò che riescono a raccontarti su un piano parallelo, forse addirittura sconosciuto alla coscienza narrativa di chi lo ha tracciato. È commovente, e questo lo dico da meta-lettore, scoprire quanto lo “scrivere” sia capace di “dire” oltre al bruto racconto. Lo stile narrativo di Elisa, che – proprio perché soggettivo e costruito su un’impalcatura fitta di pensieri rutilanti, che sostenendosi reciprocamente sostengono la narrazione – si presta a questi fenomeni, favorisce la rivelazione del non detto. E questo, come poc’anzi suggerivo, credo stia al margine tra ciò che l’autrice racconta volontariamente e ciò che, indipendentemente da lei, ci parla di lei. Nella descrizione di quella scatola rossa, che per me è come l’emblema di tutto il racconto, quella scatola che è come una cappella mortuaria di ricordi (ma tutt’altro che morti), vi è proprio l’espressione più visibile di questa mutua dualità tra l’inconscio e la coscienza di una stessa penna: c’è la scatola di cartone rossa e sfasciata che contiene tutto il mio passato. […] Avrà una trentina d’anni e non so come ho fatto a non perderla nel tempo. Di chi parli Elisa, della scatola o di te? Ma, soprattutto (ed è questo che intriga chi legge), questa sovrapposizione, questa proiezione del soggetto sull’oggetto, l’hai fatta apposta o non te ne sei accorta? Non è necessario che ci sia una risposta, perché basta la domanda ad estendere lo spessore di questa lettura oltre il confine del puro racconto. È intimità. Ti senti chiamato ad una prossimità confidenziale che non ti sembra di meritare ancora: perché queste cose le racconta a me, a me che neanche conosce? Ecco cosa pensi lì per lì. E la lettura prosegue, perciò, come un moto di gratitudine per tanta fiducia. Cominci a cercare Elisa passeggiando tra le pagine del suo libro, proprio come lei fa al Verano con altri tipi di… pagine. Entrambi, lei e noi, cerchiamo una persona viva. La risurrezione è un atteggiamento, prima che un dogma. È l’Evento di una scoperta: c’è una persona viva dietro la pietra (di una lapide o di una pagina)! Bisogna cercarla anche dentro una scatola che si decide di non aprire quasi mai perché mette tristezza e tenerezza, due stati d’animo che non riesco a sopportare gratuitamente. Verrebbe da chiedersi: a che prezzo saresti disposta a sopportarli? E il prezzo ce l’hai tra le mani, ed è proprio lì: consummatum est proprio nel libro che stai leggendo.
Generazioni dimenticate
La storia che Elisa racconta, al di là della sua propria ricerca, della sua propria storia, rivela un’urgenza di consapevolezza e di memoria. Non si può piangere su ciò che non si conosce, su ciò che non ci si è andati a cercare per farlo proprio, per trasformarlo in vita. Le assidue ricerche di Elisa Fuksas, che riparano e sostituiscono sul piano cronologico quelle di cui altri, prima di lei, avrebbero dovuto occuparsi, mostrano la drammaticità di un’amnesia talmente ordinaria e quotidiana che, appunto, si rimane stupiti di come lei sia riuscita a tirarci fuori qualcosa di così letterariamente originale: il memento mori diviene il paradosso della sua stessa amnesia di massa. Un mondo di gente “viva” (fino a che punto?) che, oltre tre generazioni, non è più in grado di risalire i gradini della storia; gente “viva” che crede di esserlo pur avendo tacitamente dimenticato coloro che chiama “morti” (fino a che punto?). Cosa ci rende fantasmi da vivi? Cosa ci assicura di essere fantasmi da morti? La morte […] si annida e si confonde alla vita. Già, ben più di un fatto biologico, la morte è uno stato interiore di cose, una mortificazione, un’ecatombe di relazioni orizzontali e trasversali sui piani dello spazio e del tempo.
E in effetti, questo racconto ti mostra come tutti, più o meno, nulla sappiano della propria storia oltre – forse – le tre generazioni che li precedono. Cosa faceva e chi era il padre di mio padre, e di mio nonno, e di chi è venuto prima di lui? Il nostro corredo ereditario, di cui siamo debitori a centinaia di generazioni che ci precedono, è ignaro di se stesso fino al punto che, ben oltre una questione meramente genetica, questa dimenticanza si esprime come perdita di identità collettiva, familiare, personale. Non conoscere il prima, e i protagonisti del prima, intacca la percezione dell’ora e dei suoi protagonisti; rende quasi impossibile la costruzione del poi. Non è solo un’eredità genetica quella che abbiamo ricevuto: ci sono storie passate senza le quali non ci sarebbero state le nostre; ci sono vecchie fotografie che rivelano non solo tratti somatici, ma sorrisi e sguardi che si riverberano nei nostri sguardi e sorrisi smemorati.
Ed è proprio qui che si innesca il motore di questo libro, cioè nel momento in cui questa vacuità diviene l’occasione per far coincidere il poi con un’infaticabile indagine sul prima: e tutto ciò determina il presente di Elisa che, a questo punto, si mostra vittorioso (nonostante gli scoramenti e le fragilità della protagonista) su una semplice visione lineare del tempo. Il desiderio di Elisa supera il tempo e lo rende circolare; di più, trinitario: passato, presente e futuro sono tre persone ma un’unica Sostanza. Il Tempo diventa un personaggio intradiegetico che cerca di parlarti e a cui tu vuoi parlare. Diventa il Deus ex machina di tutta la narrazione, inchinato però al libero arbitrio del tuo desiderio di ricostruirlo.
L’arte di saper (fare) vedere
Il confine sempre più labile tra il passato e il futuro, che si fa presente, ne rivela un altro: quello tra la scrittrice e la regista, che si fanno Elisa Fuksas e basta. Non è più necessario cercare etichette quando, nella più pura espressione di se stessa, Elisa supera le sue stesse determinazioni mostrandosi essenzialmente per ciò che è, senza che la realtà delle sue due nature artistiche infici l’essere della sua unicità. Certe pagine le vedi, come certe scene di un film le leggi. Non ti chiedi più se tu sia davanti a un testo o a uno schermo: il racconto è il padre di ogni arte, è l’Apollo di ogni musa, e a un certo punto prevale mescolando descrizioni e inquadrature come se fossero la stessa cosa: Li riapro (parla dei suoi occhi), metto a fuoco lentamente, leggo le lettere come se via via un inchiostro tridimensionale si rapprendesse, ma il nome della cappella è un altro, né quello di mio nonno né quello della famiglia di mia nonna.
L’avete “vista” o l’avete “letta” questa descrizione? Il libro ne è pieno. Pura sinestesia. Elementi già presentissimi nella prima opera, qui, in questo secondo libro sono decisamente potenziati, a beneficio di chi scrive (inquadra) e di chi legge (vede).
Come un apostrofo…
La storia, che parte – si direbbe – sotto l’influsso di una consegnata passività, senza che – apparentemente – la volontà di Elisa possa entrarci qualcosa, via via si impernia sul quel desiderio che, dicevamo, anima tutta la narrazione, e che supera addirittura la pura volontà della protagonista, facendosi qualcosa di autosussistente. Gli effetti che scaturiscono da questa ricerca sono le occasionali, e proprio per questo bellissime, perché insperate, relazioni con tutta una serie di personaggi “perimetrali” (l’aggettivo non è casuale, soprattutto al Verano!): Elisa si incontra e si confronta con tanta gente che nella sua vita sarebbe potuta non entrare mai e che, invece, c’è stata. Simpliciter. La semplicità di questi incontri fortuiti, e il segno che lasciano nella coscienza di Elisa che non potrà più farne a meno, diventano lo sfondo tematico che soggiace al senso principale della narrazione; persone che vedi una volta, che ti hanno aiutato (bellissimo il cow-boy cimiteriale, personaggio azzeccatissimo e toccante), e che SCEGLI di non dimenticare: cominci a fare con loro, finché sono vivi, quello che – da morti – li porrà in una situazione migliore rispetto al nonno che stai cercando; potrai ricordarli più facilmente perché, da vivi, li hai segnati sul notes della tua memoria per qualcosa di bello che hanno fatto, o per il semplice fatto d’esserci stati. Personaggi talvolta piccoli come un apostrofo (Gesù direbbe come uno yod, che dell’apostrofo ha la stessa forma e misura, ma un potere molto più grande) eppure determinanti perché capaci di concatenare gli eventi. Tenerissima e anche suggestiva, in questo senso, la descrizione di una scritta dietro a una foto, fatta da un’Elisa piccola che ne descriveva una ancora più piccola (un’Elisa che dunque ha sempre descritto!): Ho quattro anni, sto all’asilo un po’ seria e un po’ buffa. E poi lei stessa (la Elisa adulta) ci informa che la Elisa piccola aveva scritto po’ in questo modo: p’o. Se per Edmond Rostand l’apostrofo era metafora di quello che sappiamo (odio citare quella frase), forse per Elisa Fuksas è immagine di piccolezze tangenti che attraversano la sua vita come qualcosa che deve essere accolto, che non può restare fuori, che non può rimanere da solo. Ci sono tanti apostrofi, nella vita di Elisa, che lei include dentro di sé. Anche solo con semplici sguardi che trattengono elementi esterni e li interiorizzano.
Una grande metafora
Ada è come quel destino ineluttabile con cui prima o poi devi fare i conti: indefinibile, senza genere e volto, senza età. Ada è una specie di Melchisedech, di Simeone, che consegna ad Elisa la paura di una morte imminente; e questa genera – per (in)conscia sostituzione vicaria – la ricerca di un’altra morte che ne prenda il posto. Si penserebbe subito al nonno; ma questi, in realtà, è destinato fin dalle prime intenzioni narrative ad essere restituito alla vita: è chiamato fin da subito – e questo ci permette di camminare insieme ad Elisa per quei sentieri – ad una sorta di risurrezione. La vera morte vicaria, lo si comprende per osmosi, quando i sentimenti di chi racconta e agisce diventano i tuoi, è proprio quella della protagonista. Oh, intendiamoci, Elisa non muore. Non nel senso comune, almeno. Nell’isola di se stessa, che si circonda di mare come di affetti, lei teme la morte ma, per amore della vita di qualcuno (di più di uno, in realtà), si mette alla sua ricerca; per la serie: prima che mi trovi tu, ti trovo io. Creare un tempo per qualcuno non è cosa che si possa fare rubando tempo al tempo, se non al tuo. E togliere tempo a sé stessi, per amore di qualcuno, è una forma di morte. Di rinuncia eucaristica. Il grande Dono di chi dà la propria vita per gli altri include il mistero della Risurrezione proprio perché supera il proprio tempo e smette di considerarlo assoluto: risorgere vuol dire avere la libertà di continuare a morire (a se stessi, per qualcosa, per qualcuno). È uno scambio continuo, tra la vita e la morte, quello che – tra le pagine di questo libro – lascia basito il lettore; un duello tra chi, vivo, sceglie di morire, e chi, morto, si ritrova a vivere. Un prodigioso duello; una Sequenza e non solo di scene.
Ora, io ritengo fermamente che molte di queste cose, di questi elementi, appartengano al dominio dell’imprevisto. Non so se questi elementi dipendano immediatamente dalla volontà di Elisa; non so neanch’io se sia letteratura in senso stretto o qualcos’altro. Se l’è chiesto anche lei: Che cos’è l’opposto della letteratura? Io non lo so. Non te ne preoccupare, Elisa, come nessuno di noi se ne preoccupa. Tu continua solo a scrivere.
Come una Maddalena
Vi è un’immagine bellissima in Giovanni: quella della Maddalena che, andata al sepolcro, non trova il Signore e crede che (per intrighi e complotti, come nel romanzo di Elisa Fuksas) la sua salma sia stata trafugata, portata da un’altra parte, uccisa ancora. Non potevo esimermi, leggendo la storia di Elisa, leggendo Elisa, di non scorgerne i contorni alla controluce di quel paradigma evangelico. È suggestivo pensare (e credere!) che Gesù sia risorto dai morti anche perché sapeva che, fuori dalla sua tomba, c’era un’anima che lo stava cercando. Credo che si risorga prima, e più volentieri, quando si sa che qualcuno ci cerca. E poi è lui a cercare Maria, a chiamarla per nome, prima che il suo nome sia riconosciuto e svelato. Succede un po’ (un p’o…) la stessa cosa tra le pagine di questo libro: cerchi chi ti cerca; trovi chi ti ha trovato.
Tra un fiore colto e l’altro donato l’inesprimibile nulla, scriveva Ungaretti. A meno che, in questo nulla non si cominci a inseguire qualcosa di vivo, qualcuno che vive. E se qualcuno di vivo c’è, oltre le nebbie del nulla, a furia di cercarlo finirà per risponderti. E ti regalerà sette paroline in grassetto, che parlano di te.
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