La madre di Gesù si racconta in “Si vede che non era destino” di Daniele Petruccioli. Un punto di vista inedito, senza volontà divine, tra rassegnazione e un bagliore di ribellione, tra accettazione di ciò che è inspiegabile e un fortissimo amore materno
Se è vero che non esistono nuove storie, perché sono già state raccontate tutte, in quanto ciascuna di esse è riconducibile a un archetipo dell’epos e della nostra cultura, e se è anche vero che semmai a chi scrive — e alla letteratura — oggi non resti che concentrarsi sul “come” raccontare una storia (e non sul “cosa”), scegliendo opportunamente il punto di vista, la lingua e lo stile. Daniele Petruccioli, in Si vede che non era destino (206 pagine, 15,50 euro), TerraRossa edizioni, ci racconta una storia che conosciamo già piuttosto bene tutti, credenti e laici, quella della sacra famiglia; sceglie, però, una voce narrante e una prospettiva del tutto inedite: quelle di Maria.
Una storia laica
È in effetti lei, prima bambina e poi donna, ad accompagnarci, dall’annunciazione alla morte sul Golgota, nella propria vita e in quella del figlio Ieshua. La storia che ci narra, tuttavia, è decisamente laica: c’è il soggiorno presso la cugina Elisabetta e il marito Zaccaria, che attendono il loro primo figlio, Giovanni; c’è la gravidanza anomala e inspiegabile di Maria, ma non vi è alcun arcangelo ad annunciarle che quella è la volontà di dio; dunque lei, una ragazzina di soli quattordici anni, è e resta sola con il proprio segreto e mistero, che non sa spiegare innanzitutto a sé stessa, quindi neppure a Giuseppe, l’uomo concreto, semplice e riservato (quanto lei) che la ama, la rispetta e la accetta così com’è, in attesa di quel bambino, di cui, gli confida, non è in grado di dire di chi sia figlio.
Una storia semplice
È una storia semplice quella che vive (e racconta) Maria, eppure è densa di misteri e fatti inspiegabili, che lei accetta con la rassegnazione di chi comprende che se le cose vanno in un certo modo, si vede che non è destino che vadano diversamente, come lui o lei, invece, vorrebbe. In questo ci appare una personaggia a tutto tondo, coerente con sé stessa e con ciò che le capita, che non discute, non rifiuta, non tradisce nemmeno idealmente, in quanto lo accetta e lo vive con una naturalezza che sembra sgorgarle spontanea dalla mente e dal cuore.
Maria, tuttavia, non è del tutto solo sola in questa sua esperienza terrena e umana, il trascendente le è sempre accanto, non la abbandona e si manifesta attraverso una girandola di bambini che con i loro giochi e voci, fin dalla più tenera età, la circondano e le fanno compagnia, parlandole, ascoltandola, accompagnandola nelle scelte che deve compiere, prima ragazzina e poi donna fatta, senza mai sconvolgerle la vita, senza parvaderla.
Una storia misteriosa
Il lettore segue Maria, la ascolta, ora si intenerisce ora si stupisce, le vorrebbe chiedere spiegazioni ulteriori o chiarimenti (davvero a Cana andò in questo modo? Anche al Tempio?), mentre lei prosegue a narrare, senza pause né esitazioni. Sì, perché Maria non batte ciglio, va avanti, non ha dubbi sulla storia che sta raccontando, tutto è comprensibile e giustificabile alla luce di un’esistenza terrena e qualche errore che due genitori, come lei e Giuseppe, possono compiere: la cacciata dal tempio di Gesù dodicenne, ad esempio, è un errore di valutazione suo e del marito, illusisi di potere tornare in patria, dopo più di vent’anni, e potersi reinserire, insieme al loro stesso figlio, senza incontrare problemi, ma evidentemente non era possibile, mentre l’inizio della predicazione di Gesù è soltanto la manifestazione di una sua frenesia di volere parlare e agire, di volere stare insieme alla gente — la povera gente, in particolare, — e volerla aiutare e difendere. È una storia che resta mondana e umana, quella che Maria ci racconta e accetta, fino alla soglia della tragedia, la morte per crocifissione di quel suo unico bellissimo e amatissimo figlio, abbandonato, non solo dalla folla dei seguaci, ma anche dai più intimi e fidati: gli apostoli, Pietro e Giovanni, la sua stessa compagna, Maria (Maddalena). Soltanto a questo punto, in questo preciso momento, Maria vacilla, sembra ribellarsi, rifiutare quel destino che le appartiene e le è stato assegnato, e che lei ha accettato per un misto di timore, pudore, educazione. Non lo vuole più Maria, lo rifiuta, o meglio, rifiuta il significato e, al tempo stesso, il mistero che quella morte rappresenta, la salvezza, promessa e inscritta nel nome stesso che suo figlio porta: Ieshua. Lei è la madre, è solo e soltanto una madre che, come tutte le altre, non vuole vedere il proprio figlio morire. Sull’orlo di questo baratro, attraverso cui, in filigrana, traspare un bagliore di ribellione, Petruccioli sembra cercare e rincorrere, insieme alla protagonista, l’idea, il mito, l’ideale di quella madre originaria — Maria o forse Eva oppure anche la dea madre, venerata nel neolitico — che ci ha generati tutti, generando il primo, e forse il solo, uomo mai nato per “mistero” o “miracolo”, da cui discendiamo tutti. È il mistero dei misteri, anche questo, e ci attrae e affascina, anch’esso, tutti. Al lettore, cercare e (forse) trovare qualche risposta.
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