Un breve poetico libro che trasuda umanità, che non è saggio e non è romanzo, ma in cui vi è saggezza e racconto. È “Il dio morto così giovane” di Frédéric Boyer. È nella fondamentale assenza senza la quale il Dio cristiano non sarebbe altro che un dio qualunque, che Boyer lo incontra e se ne innamora…
Solo 91 pagine, qualcosa di fulmineo sotto lo sguardo curioso del lettore. Curioso di cosa? Di ciò che, in fin dei conti, è fondamentale. Se non alla vita dell’uomo, alla sua necessità di pensiero: Dio. Fondamentale per se stesso, come pensiero, e per riflesso di ciò che altri ne hanno pensato o scritto.
La piaga di un’intimità
Il dio morto così giovane (13 euro, edizioni Sanpino) è – insieme ad Occhi neri – una delle poche perle sfilate dalla collana di questo autore francese, Frédéric Boyer, perché occhi italiani possano contemplarne. Sarebbe interessante, dopo aver letto questo libro, contare gli anni che passeranno prima che questa collana sia interamente tradotta. E qui collana è parola ambigua, perché sembra richiamare ad un qualche progetto editoriale: libri numerati, titoli in successione, temi agganciati in un continuo sviluppo a puntate. No, non è questo. È proprio l’immagine di una collana, di un unico filo (un’anima più che un tema) che regge insieme tante perle, magari di colore diverso. Un’immagine bergsoniana ma senza accezioni negative legate ad un tempo imprigionato dalla storia. E perché mai, poi, una collana di sole perle? Immagino Boyer come quei bambini che, giocando, amano traforare oggetti tra i più svariati, tra i più diversamente colorati, e metterli poi tutti insieme in una successione istintiva, come quella dell’anima che li regge. Per traforare la realtà occorre odiarla o amarla. Lui ama, e solo così produce una ferita ulteriore, una sesta piaga che – però – non produce dolore. È la piaga di un’intimità che, per nostra fortuna, si è lasciata spiare su un sentiero letterario.
Questo il pensiero alla fine del libro. Quando ho fatto qualche ricerca sull’autore. Perché, quando leggo per la prima volta un autore sconosciuto, nulla voglio sapere di lui prima di averlo ascoltato; sarebbe scorretto, partirei avvantaggiato da un svantaggio evidente.
E invece così si gioca ad armi pari: da un lato un perfetto sconosciuto, dall’altro un perfetto incosciente. Dio da un lato, l’uomo dall’altro. Un autore e un lettore. Un pensiero e il pensiero. Si tratta di binomi ineludibili, necessari prima o poi. Si tratta di momenti di visibilità che camminano a due a due, separati per essere uniti, come all’inizio della creazione.
Assenza come Essenza
Un uomo che sta per parlarti attraverso 91 pagine che trasudano umanità (il 91 è un numero esagonale, e il sei – per quanto così presuntuosamente stabile – è un’imperfezione umana che manca di uno; sarebbe come la celletta di un’ape senza l’ape) e anelano divinità (il 91 è divisibile per sette, e il sette è quell’Uno che manca al nostro essere imperfetti, è il miele donato alla nostra vacuità supponente). Sì, le considero sul serio queste cose quando leggo un libro, non come segni, come profezie o divinazioni, ma solo come suggestioni ispiratrici.
Un uomo che sta per parlarti, dicevo. E prima che apra bocca ne osservi il volto, come sempre succede. Ne hai due a disposizione: quello sulla bandella posteriore, che in una maniera o nell’altra finisce sempre per condizionarti (espressione da intellettuale, per di più francese, con quelle palpebre a metà tra il suo mondo irrangiungibile e quello raggiungibilissimo di qualunque profano; sguardo perso a tre quarti, senza guardarti, tipico di chi scruta un’orizzonte che è tutto dentro di sé; e quei capelli tirati indietro, liberi, con esistenzialista e rinunciato abbandono… e dov’è il maglioncino nero a girocollo, accidenti?!), e poi – invece – l’altro volto: quello di copertina. Che pure questo dovrebbe condizionarti, perché una copertina “deve” condizionarti ma, appunto, ti si offre come una mediazione: la prima ermeneutica di un volto che, in bandella posteriore, rischieresti di fraintendere come ho fatto io.
La copertina, dunque, è il volto che scelgo. Ed è un volto che ne custodisce un altro, sullo sfondo, sgranato come quando le tante idee degli uomini su un personaggio come Gesù smettono di considerarlo essenzialmente una persona, e diventano pixel impazziti. Se un’idea non conserva una previdente distanza dal suo oggetto, finisce col non riconoscerlo più. Ma poi, su questa immagine, residuo e scoria di icona, si staglia un nastro rosso che squarcia la copertina in due (come il velo del tempio) e mostra, esattamente al centro, tra gli occhi di Cristo, il nome dell’autore e il titolo del libro. I due occhi di Cristo diventano lo spazio, il perimetro entro cui si colloca un pensiero: diventano una sospensione necessaria, un lasso di tempo e stanchezza all’interno del quale sorge una parola sulla Parola: Fra i due momenti vi è l’assenza di Dio. Sempre in quel po’ di tempo. Fra due momenti di visibilità. Ed è in questa assenza fondamentale (senza la quale il Dio cristiano non sarebbe altro che un dio qualunque) che Frédéric lo incontra e se ne innamora. Assenza come Essenza. Chi l’avrebbe mai detto? Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
Oltre le catalogazioni
Il libro, sostanzialmente, rifugge da qualunque catalogazione classica e binaria: non è saggio e non è romanzo, ma vi è saggezza e racconto. La sua natura va cercata, anche qui tra due generi come tra due visibilità, esattamente all’interno della possibile materia intermedia. Materia che, proprio perché intermedia e dunque sospesa, rischia d’essere provvidenzialmente riconosciuta come poesia.
Ma non è un libro di poesie. Quando uno scrive poesie, è sì un libro di poesie. Ma quando uno scrive, e basta, senza curarsi di quale sarà lo scaffale preferenziale, ma solo di descrivere di chi ci si è innamorati e perché, allora avviene l’evento-avvento della Poesia. La Poesia è profetica e parusica: anticipa e realizza; tocca gli estremi senza violentarli, sceglie la sospensione di una carne solo sfiorata, come momento intermedio tra l’origine e il compimento.
È un libro poetico, perché parla d’amore con l’incoscienza di chi lo fa in prosa, con l’inadeguatezza di chi, per l’oggetto del proprio amore, non riuscirebbe a scrivere due versi, ma solo uno, di 91 pagine.
È un libro di sfogo, perché l’eros dell’amore deve sfogarsi, scalpitare di immagini, ansimare di parole come di spasimi. E come si può mai giudicare un innamorato? Se mi dicessero che è un libro che parla di Dio, non sarei d’accordo. Non in prima istanza. E un libro che parla di un amore per Dio. E ne parla come solo un innamorato può fare: descrivendo solo l’Amato e, così facendo, non scrivendo una sola parola su se stesso. L’Autore è assente, c’è solo il suo amore che è capace di parlare di lui. Un’Assenza come Essenza.
Il tentativo di una risposta
Le pagine di Boyer scorrono veloci, anche se ti costringi a soffermarti. Sono descrizioni di chi ama, e dunque veloci; un flusso come quel nastro rosso in copertina: sangue che cola dagli occhi di un Crocifisso, ma anche guizzo di fuoco dallo sguardo di un Risorto. Sono veloci in un pensiero che è quello di chi si confida. Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi. Ma Boyer fa di più è dà ragione dell’amore che prova. Il suo libro presuppone la domanda di qualcuno: perché lo ami? Il libro non è certo la risposta completa, ma il suo tentativo di far comprendere ciò che non può essere capito se non lo provi. E tuttavia, se ciò che ha fatto perdere la testa ad un innamorato potrebbe lasciarci indifferenti (perché se il Dio cristiano fosse autonomamente amabile, e immediatamente da tutti allo stesso modo, sarebbe idolo e finzione), non ti lascia indifferente l’innamorato. Ci si può innamorare di qualcuno per come qualcun altro lo ama. L’idea di desiderio mimetico, che Girard aveva così bene elaborato, diventa possibilità di riscontro in questa fenomenologia di sguardi traversi. Io che non riesco a guardare quei due occhi in copertina, e ad amarli, li rivedo e me ne innamoro per lo sguardo di un altro. La mediazione. L’amante è il soggetto, e oggetto è l’Amato. L’innamorarsi si fa mediazione, e la mediazione – quando tocca gli estremi senza possederli – diventa Amore.
C’è tanta Trinità in questo libro, senza che questa fosse l’intenzione originaria. La Trinità viene fuori da triangolazioni involontarie; mentre, se cerchi di studiarla, non la vedi. Risponde a un principio di indeterminazione che solo un innamorato, proprio perché non se ne avvede, riesce a vincere.
Dal punto di vista meramente stilistico, oltre un certo livello di lettura, e oltre a ciò che da questa lettura ci si aspetta o che in essa si ricerca, si rimane letteralmente incastrati all’interno di soluzioni retoriche che, scherzando tra il soliloquio propriamente detto e il dialogico soggettivo, ben più scenografico, amplificano certi spazi di risonanza lessicale ben oltre l’orizzonte della comprensione semantica: non è più il significato che ti raggiunge (anche!) ma il suo contenitore formale, la parola in quanto tale, la sua bellezza, la sua collocazione estetica, il continuo e altalenante scherzo di chiasmi e di assonanze. Sembra che il pierrot innamorato di Dio agganci come in un ripetuto giro di danza le competenze del giocoliere; solo che, al posto dei soliti oggetti lanciati in aria e puntualmente ripresi senza che cadano per terra, ci sono le parole. Particolarmente efficaci sono gli incipit dei diversi paragrafi che, riprendendo in bocca la risposta alla domanda fondamentale (perché lo ami, dunque?), riallacciano sempre il lettore al senso “intermedio” dell’opera. Perché il Senso ultimo è l’Amato.
Imitando Cristo
Si ha l’immediata impressione che Boyer sia perfettamente in grado di esprimersi attraverso concetti ancora più alti rispetto a quelli che usa, e che sono già tanto altissimi quanto percorribili; lo si capisce per una evidente destrezza nell’uso delle immagini, che ti raggiungono istantaneamente e te ne promettono altre: la descrizione di un innamorato è sempre una speranza, una promessa, come la vita di un cristiano. Peraltro, questa percezione di chiara competenza, che si rivela sin dalle prime righe, non include per se stessa e in modo ineluttabile l’autore dentro la categoria degli inarrivabili. Arriva, eccome! E si lascia arrivare, se così mi è permesso dire. Lo fa senza che si abbia l’impressione che egli si stia sforzando nel ridursi ad una semplicità di cortesia, anche perché la semplicità non è mai una riduzione, né può essere una cortesia. È habitus come humus. L’Incarnazione è una semplicità, è il Semplice per eccellenza: chi direbbe che si tratti di una riduzione? Un Dio che si rimpicciolisce cerca di crescere nell’uomo, fin dal grembo di sua Madre. Così un autore, fin dal vagito di una frase. Boyer è semplice e grande in quello che dice, e si nota con tenerezza come – indipendentemente dal suo stile letterario, ma grazie ad esso – egli cerchi di farsi ritratto di un Altro. Non è emulazione né adulazione: è sospensione e imitazione, nel senso più artistico e spirituale possibile. Imitazione di Cristo.
E poi siamo davanti a qualcosa che certamente – per chi conosce il francese – andrebbe letto senz’altro in lingua originale, anche se ringraziamo la Provvidenza (nella ipostasi di un eccellente Emanuele Borsotti).
Perché dico questo, io che non conosco il francese e che dunque non riesco a cogliere le differenze? Perché, se dovessi innamorarmi di Qualcuno, chi avrebbe parole o lingue migliori di quelle che io potrei usare? Se fossi muto, quale parola, meglio del silenzio, potrebbe descrivere questo amore? E così, vagheggiando la musicalità di una lingua che non conosco se non per il suo suono (una vibrazione è già conoscenza, come nella Scrittura gli innamorati vibrano d’amore, “conoscendosi”) immagino come dovrebbero vibrare certe frasi, certi periodi. Se questo libro dovesse diventare un film (e perché no?), lo girerei a Parigi. Un perfetto film francese, fatto di silenzi che nascono da dentro e parole che arrivano dall’esterno, e viceversa. Un’umanità che passeggia in mezzo all’umanità, pensando all’Amato, e i suoi pensieri affidati ad una voce fuoricampo. Sullo sfondo la Tour Eiffel, le stradine di Montmarte, la Senna, la Défense, le Jardin de Luxembourg, e qualunque altro luogo (comune) in cui, in francese, si possa sentir parlare un innamorato. Un film da non ridoppiare, dove anche i sottotitoli sarebbero di troppo, ma necessari. Come necessario è un discorso da innamorato, sottotitolo all’amore.
Una sequenza di scene come di parole, in mezzo a tanti luoghi, quelli dell’umanità. Ma mai in una chiesa: un’Assenza di tempio che, del tempio, rivela l’Essenza in chi è innamorato. Una sospensione, un’attesa. Il tabernacolo di un cuore. Le Sacré-Cœur.
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