Dio muore e l’uomo è immortale, Della Santunione fa… ballare

“Poco mossi gli altri mari” è l’esordio di Alessandro Della Santunione, romanzo che – pur presentando un universo favolistico, difende il livello di realismo della narrazione – e regala totale libertà immaginativa al lettore: quattro generazioni convivono sotto un tetto, una brigata di bislacchi squinternati alle prese con spigolature, amarcord e facezie…

«Il vino buono sta nelle botti piccole». Evergreen di saggezza popolare che ben sintetizza il mio giudizio sulle centosettanta pagine di Poco mossi gli altri mari (17 euro), romanzo d’esordio di Alessandro Della SantunioneMarcos Y Marcos editore.
Siamo nella provincia modenese, a Campogalliano, via Ori 14, per essere puntuali.
Qui, la voce narrante alla quale è affidato il racconto, un uomo di mezza età, maggiore di un fratello e una sorella, sposato e a sua volta con figli, ci apre le porte dell’enclave di famiglia, costituita per volontà di suo padre al fine di non disperdere un non meglio specificato patrimonio e ottimizzare le risorse individuali, all’insegna di un’originale ideologia socialdemocratica patriarcale.

Anomalie ed eccezionalità

Le anomalie, si sa, sono un po’ come le ciliegie: una tira l’altra.
L’eccezionalità dell’assetto domestico, derivato dalla convivenza di ben quattro generazioni sotto il medesimo tetto, comporta, naturalmente, uno stravolgimento architettonico della casa, che prolifera su sé stessa nello sforzo di contenerle tutte, risputando da qualsiasi vuoto disponibile più che camere, anfratti al limite dell’agibilità.
La stranezza maggiore è, tuttavia un’altra. Dal giorno in cui inizia il rito della convivenza – allargata a consanguinei, affini e perfino a ex fidanzate/i -, i membri della famiglia sviluppano il peculiare dono dell’immortalità. Svetta, tra i super longevi di casa, la bisnonna con i suoi centoquarantadue anni.
Ipotizziamo le conseguenze. C’è la progressiva solitudine a cui si è condannati quando gli amici, i conoscenti e i compaesani progressivamente se ne vanno al camposanto. C’è, all’opposto, la cristallizzazione dello sviluppo emotivo indotta dal non dover nemmeno provare ad immaginare cosa significhi essere colpiti da un lutto più intimo. Pensiamo, poi, all’apatia causata dalla prospettiva di un tempo perpetuo davanti a sé. Vivere alla giornata, mollare gli impegni lavorativi per far affidamento unicamente sulla previdenza sociale spettante agli anziani, è una scelta plausibile. Che dire, poi, degli effetti fisici? I più giovani subiscono una sorta di sabotaggio: dimostrare la metà dei propri anni avendone più del doppio, mantenendo una voce perennemente adolescenziale, impedisce loro di conseguire la credibilità degli adulti.

Equilibrio alchemico

Resilienza: tra le parole moderne forse la più vituperata, sicuramente la più abusata. Eppure, in questo caso, nella contingenza, cioè, di interpretare lo spirito con cui i protagonisti fronteggiano il proprio insolito destino, mi pare la migliore. I nostri intrepidi longevi si adattano alla incompiutezza – la morte è un punto fermo che conclude un ciclo – rispondendo con una quotidiana normalità per nulla simulata o di facciata. Sono genuinamente ancorati alle dinamiche di quella provincia in cui affondano le proprie radici e da esse traggono nutrimento. Abitano con spontaneità, fino ad esserne noncuranti, seppure qua e là tradiscono una inconscia frustrazione, lo spazio dilatato della casa e il tempo espanso. Il loro è un equilibrio alchemico, propiziato dal ritmo e dalle risorse della ancestrale comunità emiliana di residenza, scandita da chiacchiere di vicinato, giocate a carte e bevute. Tutto fino a che «un pomeriggio, (…) mentre il mondo veniva travolto da un edonismo economico senza precedenti», il narratore-protagonista del romanzo di Della Santunione ritiene opportuno riferire alla famiglia la notizia della morte di Dio, appresa dal professore di filosofia. Per sapere cosa accade alla balzana brigata quando viene a mancare la spiritualità del vivere di cui Dio è appunto l’identificazione, vi consiglio, naturalmente, di leggere il romanzo.

Una sorta di liscio

Condanna o privilegio la sorte toccata loro per via della dimenticanza delle Moire? Questo è il dubbio che aleggia tra le righe. Un dilemma che, per quanto di un certo peso, non impedisce di immergersi nel romanzo – che si presta ad un puro, godereccio abbandono – in una dimensione di totale libertà immaginativa. Merito della formula trovata da Della Santunione, il quale, benché abbia preferito un universo favolistico, ha difeso egregiamente il livello di realismo della narrazione. L’elemento misterioso, infatti, origina e guida la storia ma non la fagocita. L’inspiegabile non tracima mai in ambiguo, neppure dopo “la morte di Dio”, che segna – seppure quasi impercettibile – un innalzamento della soglia di “straniante”. Merito di una scrittura che si sorseggia con estrema piacevolezza, sanguigna, che gioca rimescolando il dialetto all’italiano parlato per garantire veridicità alla trama. Merito della somma di spigolature, amarcord, facezie e micro-avventure dei bislacchi squinternati di via Ori, che incuriosisce, suggestiona, e soprattutto aggiunge spessore e robustezza in termini, appunto, di realismo, essendo un formulario di repertori di vita, sia familiare che comunitaria, condiviso sicuramente dai lettori. Merito, infine, della declinazione di tempo, sia inteso come ambientazione storica, che costruzione della cronologia narrativa, disegnata dall’autore come «una specie di fisarmonica che suona una canzone strampalata» in cui presente e passato sono inglobati in qualcosa di indefinibile che si contorce e si dilata. Una sorta di liscio sulla cui melodia tocca ballare ai protagonisti e su cui si trova a ballare con gran divertimento pure chi legge.

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