Maeve Brennan aveva il dono di muovere e dare agli oggetti la funzione narrante, ciò che si cerca nella narrativa contemporanea e che sembra essere sparito: la cara, vecchia, tutt’altro che consolatoria, letteratura d’ambiente. Leggere per credere un suo gioiello, “La visitatrice”
La parabola esistenziale e professionale della scrittrice irlandese Maeve Brennan mi ha ricordato molto quella della fotografa Vivian Maier, che ha visto affermarsi, solo postumo, il culmine del suo successo di street photographer.
Così è stato per Brennan, che è considerata, oggi, tra le più grandi autrici di racconti al mondo, ma in vita, a causa delle sue vicissitudini depressive e il carattere fortemente schivo e inquieto, non fu in grado di lasciar fluire tutto il suo enorme talento letterario, traducendolo in copiosa letteratura, rendendosi visibile a tutti.
Il manoscritto ritrovato
Maeve Brennan ci ha regalato meravigliose raccolte di racconti, (Racconti di New York, Il principio dell’amore, La sposa irlandese), e il romanzo breve (o racconto lungo) di cui qui si parla, La visitatrice (109 pagine, 11 euro), tradotto da Anna Arduini per Rizzoli.
Nel 1997, in un archivio universitario americano, il manoscritto de La visitatrice è ritrovato per caso, proprio come la famosa valigia di Vivian Maier, piena zeppa di negativi mai sviluppati, acquistati da un amatore che li fece sviluppare, dando alle stampe una serie di fotografie che da più di dieci anni a questa parte fanno il giro del mondo, allestiti in mostre affollatissime di visitatori appassionati.
Maeve Brennan, come Vivian Maier, aveva un dono, un talento eccezionale: saper cogliere i minimi particolari, in strada come nella vita; leggevano sfumature che spesso sfuggono o non sono illuminate dalla giusta luce. Brennan usava la penna per fissarle sulla pagina come Maier il mirino della sua Rolleiflex per imprimerle sulla pellicola. Entrambe erano dotate di un occhio finissimo che indagava l’animo umano e coglieva il legame tra espressioni fisiche e interiori. Sulla pagina di Maeve Brennan si osservano colori vividi, temperature delle emozioni, che testimoniano la sua incomparabile capacità di ricalcare in modo fedele la realtà.
Un talento straordinario, quello di Brennan, fatto di parola essenziale che fissa il punto in cui cade la luce in una scena, e la illumina di significato.
Lo si diceva anche negli anni in cui visse, eppure fu difficile coinvolgerla nella vita, cosiddetta, normale che la circondava e dalla quale rimase sempre isolata e lontana.
Chissà che non fosse proprio questa lontananza a donarle la caratteristica principale che si coglie nella sua scrittura: lo sguardo tagliente e preciso che sa dove andare, dove posarsi per restituire atmosfere piene di particolari “parlanti”, anche quando a dominare sulla pagina è il silenzio del non detto, del non scritto.
Potrei dire che Brennan sapeva dare e togliere voce alle cose, ma non basterebbe. Brennan sa conferire loro anche un tono. Ogni cosa che appartiene alla realtà ha una sua autonomia che la scrittrice sapeva estrapolare e tradurre in letteratura con un lessico e una trasposizione naturali, mai artificiose, non si avverte mai la sensazione che sotto la scelta terminologica, ci sia uno studio.
Ritorno a casa… da indesiderata
Ne La visitatrice, la storia è alquanto semplice e si sviluppa in una trama essenziale di appena un centinaio di pagine. Racconta il ritorno di Anastasia, una ragazza ventenne figlia di genitori separati, nella casa dove è cresciuta, a Dublino. Dopo aver trascorso gli ultimi sei anni a Parigi, al seguito della madre, fuggita per allontanarsi da un matrimonio infelice, Anastasia pensa e sente il desiderio di tornare a casa, dove trova solo la nonna paterna, rimasta sola dopo la scomparsa del figlio, nella cui memoria vive, inconsolabile e incapace di perdono proprio verso quella madre che, a suo dire, ha in qualche modo posto fine al matrimonio, ma è anche responsabile della fine dolorosa e prematura del marito e figlio della Signora King. Come per osmosi, la Signora King rifiuterà di accogliere per sempre Anastasia.
È con questi sentimenti, che oscillano tra rancore, indifferenza, incapacità di perdono, e memoria che Brennan dipinge le anime dei suoi personaggi, di questa nipote che per lei rimane un’estranea, una visitatrice, appunto, indesiderata.
Dalla pagina di Maeve Brennan salgono il profumo e le temperature di questa piccola casa irlandese. Si cammina per i corridoi, ci si sposta tra le stanze come fanno i personaggi che la abitano, si fissa la vecchia tappezzeria, si sente il caldo camino scoppiettare, perché tutto quello che si legge ha corpo.
Tutto diventa personaggio, anche il ramo d’edera che si vede, pendulo, dai vetri della finestra della stanza di casa che affaccia sul cortile interno e che è descritto, come in altri numerosi passi, con toni che lambiscono la poesia più cristallina: “Sul vetro pendeva rigido un tralcio di edera. Pareva che bussasse, ma senza emettere alcun suono. Obbediva al vento e danzava cieco nell’aria, e se produceva qualche lieve fruscio contro il vetro si perdeva da qualche parte fuori”.
Lo stile della scrittrice irlandese è talmente visivo da assumere contorni tridimensionali. Durante la lettura sembra di indossare gli occhiali di una realtà aumentata per quanto si è coinvolti e trascinati dentro le scene; le immagini descritte sono vivide, ricche di particolari eppure mantengono un’essenzialità fuori dal comune.
Molte ombre, volute
Ma La visitatrice, come si diceva, è anche un libro dove non tutto è detto; in cui le ombre sono molte, e volute. Brennan riesce a celare ciò che il lettore non deve leggere: glielo evoca. Usa quella luce, come un fotografo: per puntare lo sguardo solo su alcuni particolari, lasciando in ombra il resto, affinché il gioco di buio e luce gli indichi la strada. Ne scrive ammirato Pietro Citati, nel 2005: “Basta leggere poche righe e due pagine, per sapere che mai, a nessun costo, per nessuna ragione o costrizione, continueremo la lettura di un libro: mentre abbandoniamo durante qualche ora persino Leopardi, per ascoltare questa «irresistibile» voce irlandese, che non insegna, non chiede e non spiega”.
Una volta attraversato l’incipit, si è catturati completamente; inchiodati alla pagina, si prosegue senza sazietà a cibarsi delle sue parole, trovando difficile staccarsi dal libro. Si tenta, ma non si riesce a interrompere la lettura dopo poche pagine.
La visitatrice è stato considerato un racconto perfetto, perfino nel finale, a dir poco enigmatico, ribelle, in tutto e per tutto simile al carattere della sua autrice. Gli editor, tra i più blasonati dell’epoca, fra tutti vedi William Maxwell e John Updike, che la conobbero e seguirono anche professionalmente, ne magnificarono stile e voce spontanei con cui si esprimeva.
Ed è vero, leggere Maeve Brennan è come abbeverarsi a una fonte fresca in una giornata di calura. È percepibile la genuinità con cui scriveva. Il suo talento è musicale e profumato. Brennan aveva il dono di muovere e dare agli oggetti la funzione narrante, ciò che, come un bene prezioso, oggi si cerca nella narrativa contemporanea e che sembra essere sparito (ahinoi) dalle pagine: la cara, vecchia, tutt’altro che consolatoria, letteratura d’ambiente. In questo andirivieni tra interiorità e ambienti esterni sta tutta la meraviglia della scrittura dell’autrice irlandese, capace di legare in un tutt’uno scene ed emozioni, facendole carne viva e, ricordando qua e là, il grande maestro di lei conterraneo, James Joyce, specie mentre Anastasia vaga per la città, nelle strade luci e ombre di Dublino, lì, si sente una somiglianza inconsapevole e inebriante per il lettore, nella migliore delle tradizioni irlandesi: “Ora in città ci sono due mondi. Un mondo è circondato da mura e l’altro è popolato di gente. Il secondo mondo si trova fuori, con il cielo di fine inverno e alberi nudi e marciapiedi impietriti che si estendono in ogni direzione, e le vetrine luminose e scintillanti dei negozi la gente che chiacchiera. Questo mondo ha un volto cieco e malevolo, che è il volto della folla. Il volto della folla non si coglie subito, è visibile solo dopo un po’, quando si svela in sguardi obliqui e interrogativi e in occhiate taglienti”.
Quanta bellezza.
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