Sono versi duri e fieri quelli delle poesie di Terrence Hayes contenute in “Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro”. Al centro della scena la questione razziale negli States, senza retorica, ma anche la polemica anticristiana…
Prendo a prestito, perché perfetta, la sintesi del traduttore Mario Capello che viene riportata nel retrocopertina: si tratta di poesie “irte, aspre, tutte punte e spuntoni, e rotture, e angoli spigoli e ganci”. Versi duri e fieri, come i pugni di Muhammad Alì ma senza la sua sfrontatezza, perché l’autore stesso è nella mischia di coloro che sferza. Versi sporchi come street art, come quei quartieri di Chicago o Philadelphia che vedevamo nei film anni ‘80; versi paludosi come le rive del Mississippi. Tutto è profondamente americano, suo malgrado, nella poetica di Terrence Hayes in questo bel libro proposto in Italia da edizioni Tlon: Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro (184 pagine, 15,20 euro).
Il sonetto e la canzone
Queste sono le due forme poetiche con cui si esprime l’autore. L’autore maneggia il sonetto in maniera talmente mirabile (come si vedrà anche dalle citazioni che riporterò appositamente in originale) che lo stesso indice delle liriche, titolate col primo verso di ciascuna, sono una serie di sonetti formati con queste! Le due forme del sonetto e della canzone tendono naturalmente a mischiarsi, dal madrigale in poi, nella storia della letteratura. In autori come lui questo processo è ancora più marcato grazie anche al contributo di alcuni generi musicali che proprio in America hanno influenzato più rapidamente il panorama culturale. La canzone, intesa come componimento scritto o brano da ascoltare, “…deve essere culturale, confessionale, chiara/ ma mai banale. Deve essere piena di compassione/ E corvi che chinano il capo all’ombra di un avvoltoio (…) La canzone deve conservare la canzone deve conservare la tempesta ed il tamburo (own storm & drum)/ Ed emanare un suono così piacevole da venir cantata al tramonto/ Ai matrimoni, ai battesimi e alle decapitazioni da lì in poi” (p.95). Molte delle sue liriche potrebbero essere i testi di una ballata di Dylan (Bob), o richiamare il sound e i temi di un brano di Bruce Springsteen. La seguente quartina ad esempio potrebbe appartenere ad entrambi:
I look you in an American sonnet that is part prison
Part panic closet, a little room in a house set aflame.
I look you in a form that is part music box, part meat
Grinder to separate the song of the bird from the bone.
Mi scuso per il capoverso sempre maiuscolo, è una scelta che non amo ma è quella dell’autore. La strofa è non solo stilisticamente emblematica; già nelle primissime pagine (p.29) l’autore riporta una propria dichiarazione poetica: il verso brucia e mi brucia, mi protegge e mi imprigiona, mi rassicura e mi tritura. La metafora successiva nella poesia presenta il mondo come una vecchia palestra che puzza di merda e di latrine, abbandonata nella notte. Mi ricorda quella di Rocky Balboa. Ma io di certo ho visto troppa TV, e soprattutto ho troppa whiteness (per quanto siculo). Cominciano a calare corvi in the shadows of the gym, e qui vi risparmierò tutta la genealogia simbolica che va quanto meno da Edgar Allan Poe al film The Crow, autentico cult della mia generazione. Ci concentreremo su ciò che secondo Hayes fa veramente paura in America: il colore del corvo, la sua blackness.
L’isteria del maschio nero: nigga like a Nigger
“Probably twilight makes blackness dangerous darkness”: con questo verso lapidario, qualche pagina prima, Terrance Hayes descrive l’orizzonte delle paure e il crepuscolo delle speranze del popolo americano. Senza alcuna retorica ma con grande impeto e linguaggio tagliente l’autore esprime tutto il suo impegno per la questione razziale negli States. Egli è uno scrittore afroamericano pienamente immerso nella situazione, ed anzi la prima poesie parla proprio dei “black poet”, l’ultimo categoria di disadattati, guerrieri disfunzionali dai linguaggi schembri e dagli esiti incerti che l’antro dei poeti da sempre partorisce. Se dovessimo definirli, emergerebbe anche per loro il tema della consapevolezza nera non ancora messa a fuoco: “come definisci un visionario che non sa riconoscere la propria visione?”
Con il suo tipico sarcasmo Hayes introduce l’immagine (e il tema) dell’isteria del maschio nero come fil rouge di tutto il testo: compaiono ben quattro liriche con questo titolo, una per ogni silloge (o sezione) che compone la raccolta. Di cosa si tratta? Da una parte, ad extra, il riferimento è all’evidente isteria sociale con cui in America ancora oggi i neri sono trattati, e basti pensare a quanto la cronaca ci ha riportato in questi ultimi anni dando origine, come reazione, al noto movimento Black lives matter. Egli la racconta riferendola al passato, quando in tutta la sua evidenza veniva negata, così come viene negata ancora oggi: “Ma non c’è mai stata un’isteria del maschio nero./ Come se essere chiamato Nigger non ti avesse fatto mai/ Scomparire. Come se la paura delle altre persone/ non ti avesse mai fatto levitare” (p.151). Nel testo che vi proponiamo, il traduttore Mario Capello spiega in nota la scelta di asteriscare la parola nigger, negro. Ma io stavolta dissento, credo che faremmo un torto molto sgradito all’autore. “Negro” porta con sé tutto quell carico di disprezzo che l’autore vuole schiaffarci; scelte di politically correct sono qui inopportune. Il fatto di aver celato il termine nella lirica di p.37 dal titolo “Persino la più gentile delle donne bianche” rientra nella satira spietata che egli fa del personaggio, totalmente ovattata nella sua bolla di inconsapevolezza mentre ascolta in auto a tutto volume musica nera americana canticchiando tra sè la…n-words. Negro però si dice e si continuerà a dire purtroppo, in America come altrove, e Hayes vuole trascinarci nel disagio che quel termine crea. Ma noi non possiamo che viverlo da fuori; noi abbiamo l’isteria della paura irrazionale del diverso, loro ad intra vivono l’isteria della paura del perseguitato, un’isteria febbrile anche quando sottile e silenziosa, che consuma i Neri nella quotidianità e nella indifferenza: si legga per intero la lirica di pag.111, in cui l’autore produce il suo massimo sforzo per rendercela. Si apprezza quindi dell’autore la capacità di fare critica sociale ed introspezione in un tempo unico, con la medesima scrittura. A proposito di linguaggio, c’è un’altra curiosità da segnalare: l’introduzione voluta di un gergalismo intraducibile dello slang americano, un termine il cui significato sarebbe quello di una piccola minoranza disprezzata da tutti. Il termine è nigga.
It feels sadder when a black person says Nigga
Because it sounds like Nigger. It feels sadder
When a brother or sister says Nigga because
It sounds like Nigger. I have never hear either
Word in the mouth of my mother or father. (p.91)
“Nessuna parola mi dona più vergogna”, commenta Hayes qualche verso dopo, aggiungendo: “sarai sempre il mio nigga, dico allo specchio”. Suona sempre più triste quando una persona nera dice nigga, perchè suona come negro: massimamente grave – allude l’autore – quando un fratello la usa per riferirsi a qualche altra minoranza diversamente perseguitata. La grandezza di Hayes nel suo contesto è la poliedricità della sua lirica sferzante: nessuno è esente da critiche, nonostante egli mostri fieramente la sua militanza. Egli prende parte perché parte di un mondo.
Father and son; terra e radici
Cat Stevens e la sua celebre canzone saltano subito al ricordo del presente maschio bianco. Ma approccio ed esiti sono totalmente diversi. Nelle poesie di Hayes abbiamo notato spesso un riferimento alla famiglia, tanto forte quanto inespresso, fatto di quei legami tesi come “un arco che non si chiude mai abbastanza per vedere la freccia colpire il bersaglio”. Siamo a pagina 61, e la lirica continua così:
……Io resto un mistero per mio padre.
Mio padre resta un mistero per me.
Il cristianesimo è una religione sorta attorno a un padre
Che non salva suo figlio. È la storia
Di un figlio il cui padre è uno spettro.
Questa strofa gli serve per raccontare, in maniera analogica, incomunicabilità generazionale e familiare, fatta più che altro di religiosi silenzi e rispetto sacrale, ma che a volte è fatta di vuoti incolmabili. L’altra faccia è la polemica anticristiana: forse – allude il poeta – la famiglia come la conosciamo (nella migliore delle ipotesi…) è lo specchio di quel Padre evanescente di cui Gesù (e con lui l’umanità intera, intende Hayes) fu vittima. Nella lirica della pagina precedente, dall’eloquente titolo “il nostro sermone di oggi concerne la dialettica”, l’autore critica la trascendenza come specchietto per uomini-allodole. Eppure, descrive (per noi seriamente) l’uomo come tesi tra due estremi: “una fune tira un corpo verso il basso/ E nella terra, un altro tira verso l’alto & verso le stelle./ Essere divisi è essere moltiplicati”. Egli non disconosce la tensione umana ma col verso finale del brano pare aver operato una scelta, certamente contromano rispetto ad ogni religiosità tradizionale: “il nostro sermone di oggi mette la bellezza del peccato a confronto con la purezza dello sporco”. Ma il suo è un sermone poetico, non dimentichiamolo. E poi questo verso, chissà perché, mi ricorda un altro celebre finale: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
Nella stessa lirica di pag. 59 troviamo anche questi versi: “riflettiamo su come io & tu siamo ancora/ Vivi. Il Mississipi & tutti i mari legati al cielo dalla pioggia/ La radice e l’estensione di tutti gli alberi”. Forse la vita è proprio quel legame-tensione tra cielo e terra, e forse la vita su questa terra non può che essere fatta di radici, come quelle familiari appunto, ma anche del Paese che ti ha dato i natali e che ti ha visto crescere. Terrence Hayes resta profondamente americano suo malgrado, ogni suo verso gronda della sua appartenenza e del suo background. Un americano deluso dal tipo di cambiamento operato dal suo paese che guarda “ad un ritorno al tipo di soggezione che si prova dopo aver guardato un regno d’oro”: narcisismo e catene d’oro per molti dei suoi abitanti. Un americano di certo non che non si è arreso, e che lancia strali ai responsabili: “Come nessun altra cultura prima ci relazioniamo come i discendenti/ degli stuprati si relazionano ai discendenti degli stupratori. (…) Possa tutto l’oro che toccate bruciare, marcire & arrugginire” (p.69). Talvolta il dissidio gli appare irrisolvibile ed indissolubile dalla sua società: “la battaglia dell’America con se stessa/ ha sempre avuto gente come me al centro./ Non puoi afferrare/ la tua stessa lotta, la tua nerità, non puoi afferrare la tua stessa fica, la tua fica nera muore dalla voglia di essere toccata” (p.79). Da quando spararono a Martin Luter King, Terrence Hayes abita la sua America scrivendo: “questo paese è mio quanto la casa di un orfano è sua” (p.145).
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