In “Feste religiose in Sicilia”, testo fondamentale ma fuori catalogo di Leonardo Sciascia, si sottolinea la nostalgia del presente che ogni festa instilla nei siciliani, per i quali è insopportabile qualsiasi ipotesi di futuro. Riti, musica e confraternite dialogano con un passato mai redento, che diventa solo perdita. Più che mai nel corso della Settimana Santa…
Le feste popolari, in tutto il mezzogiorno d’Italia, sono state spesso oggetto, dal secondo dopoguerra, di una rimeditazione continua, complici sicuramente le importanti ricerche etnografiche condotte in quegli anni da studiosi come Ernesto De Martino. Il groviglio inestricabile tra rito, musica, fideismo magico, ha reso le feste popolari del sud un luogo di analisi privilegiato, necessario, come professò pure Pasolini, per salvare le testimonianze di un mondo destinato all’estinzione, antidoto alla mercificazione della società: come dire, la conservazione contro il consumo, la conservazione volta ad un progresso più autentico, dal basso, oseremmo dire. Contraddizioni forse inevitabili di fronte alle trasformazioni così radicali di quegli anni.
Sciascia: macché religiosità…
In questo quadro, nel 1965 Leonardo Sciascia, insieme al giovanissimo fotografo Ferdinando Scianna, pubblica un testo cruciale, Feste religiose in Sicilia (Edizioni Leonardo Da Vinci, Bari). È un testo dove il grande ordinatore della cultura siciliana traccia un itinerario ben preciso, mettendo in discussione il fondamento di queste manifestazioni e la loro stessa religiosità.
Citiamo doverosamente il passo forse più celebre del libro: la festa religiosa in Sicilia «è tutto, tranne una festa religiosa. È innanzi tutto una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Perché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo».
La “trance” della festa
Questo testo sicuramente fondamentale, non più in catalogo da tanto tempo, racchiude tutto ciò che Sciascia aveva scritto e continuerà a scrivere in varie opere di quella saggistica letteraria (La corda pazza, Cruciverba, Nero su nero) che resta una delle testimonianze più grandi del suo magistero. Ma mi piace ricordare come tali riflessioni siano anche presenti in un romanzo quale Il Consiglio d’Egitto, il capolavoro del 1963. In questo indispensabile romanzo storico, il ruolo delle feste religiose, da Santa Rosalia sino alla Settimana Santa, si apre al ventaglio delle più profonde interpretazioni antropologiche, poi appunto riprese nel saggio di due anni successivo: la festa è l’unico tempo che il siciliano sente realmente trascorrere, una sorta di nostalgia del presente che gli rende insopportabile qualsivoglia ipotesi di futuro. Una sorta di trance che del resto finisce per essere bieco strumento di consenso e controllo, naturalmente.
Una preghiera che nessun Dio ascolterà
Guardiamo allora, come è giusto in questo periodo, con più attenzione alla Settimana Santa. È un tempo che ha mantenuto un passo diverso da tutto il resto dell’anno: i luoghi, le persone, gli stessi oggetti della vita quotidiana si trasfigurano durante i diversi riti, diventano simboli di una diversa percezione del mondo. La musica, in questo, ha un ruolo fondamentale giacché le varie marce funebri, al di là della loro maggiore o minore qualità intrinseca, fanno finalmente da inno collettivo, una preghiera però che nessun Dio ascolterà, perché non è elevata a Dio ma all’uomo, al suo inutile dolore, alla sua vita sprecata, crudele, straziante. Le bande musicali, le voci polisemiche delle lamentanze, così rilevanti sul piano etnomusicale, assomigliano allora ai work song, ai canti del dolore e della fatica di vivere.
Maschere vuote
Il silenzio di Dio è particolarmente profondo al sud, lo sappiamo. E le rappresentazioni della Settimana Santa, vuoi quelle fragorose e un po’ folli, vuoi quelle silenziose e stilizzate, restano il momento in cui l’uomo sembra appropriarsi del Cielo e della narrazione sacra, ne fa il canto dalla propria condizione umana, e più spesso inumana. I volti senza volto dei confrati, che così fortemente colpiscono chi segue per la prima volta queste processioni – retaggio di costumi spagnoli perfettamente interiorizzati – possono come delle maschere segnare il confine della rappresentazione. Ma sono maschere tutte uguali, vuote, ad ulteriore testimonianza di una festa di lutto, come un funerale finalmente e per un’unica volta rito comune (ecco di nuovo Sciascia).
Una sontuosa tragica perdita
In tutti i casi, si tratta di un dialogo con un passato mai redento: gli armoire dove sono riposte, nelle case dei confrati, le vesti per i riti sono in fin dei conti come degli altari per gli dei della casa, ctoni, sotterranei, al cui richiamo non ci si può però sottrarre. Le infinite processioni diventano così una solenne esposizione di quei relitti di memoria e di storia che, complice l’oscurità della morte del Dio, i confrati portano con sé in una simbolica ostensione senza luce: il passato diventa solo perdita, una inevitabile, sontuosa, tragica perdita.
Se così è, siamo di fronte ancora una volta ad una ricapitolazione, alla celebrazione di una sconfitta. Ha più senso la morte della vita. Questo l’antico retaggio della tradizione popolare del sud.
Le foto rappresentano alcuni momenti dei riti della Settimana Santa a Enna