“Addio a Gabo e Mercedes” di Rodrigo Garcia è principalmente il racconto da parte del primogenito – tra insicurezze e dubbi – delle ultime settimane di vita di Gabriel Garcia Marquez, fra i maggiori scrittori del Novecento. Ed è metaforicamente il requiem del realismo magico che contribuì a esportare nel mondo. Una storia impudica, quella di un mito riservato, reso indifeso dalla malattia
Non il semplice commiato di un figlio a genitori, uno in particolare, di fama planetaria. Più probabilmente il sigillo di una stagione eccezionale e, adesso, scomparsa un po’ dai radar. Il realismo magico e i suoi protagonisti sono ormai finiti in un cono d’ombra, fuori moda, banalizzati da epigoni non all’altezza, superati da tendenze ombelicali e cervellotiche – nell’ambito delle quali si salva giusto qualche campione del genere e nulla più. Chi ha altre idee, però, torna a leggere e rileggere quei cinque, sei romanzi imprescindibili di Gabriel Garcia Marquez, e altri dei suoi fratelli del boom. «Una buona storia surclassa la realtà, sempre. Una buona storia è la realtà», scrive del resto Rodrigo Garcia, regista televisivo e cinematografico, il maggiore dei figli del premio Nobel 1982, in Addio a Gabo e Mercedes (152 pagine, 11 euro), pubblicato negli Oscar Mondadori. I due coniugi sono il mondo perduto del figlio, orgoglio e rimpianto, enigma e scudo protettivo che viene meno.
Intimità e distacco
Il libro, in sé, è un concentrato di intimità ma anche di notevole distacco; ed è, a tratti, inevitabilmente lugubre e impudico. Come davanti al feretro di Gabriel Garcia Marquez, scomparso a 87 anni nel 2014, sei anni prima della moglie Mercedes Barcha.
Sto cercando di costruirmi dei ponti mentali fra mio padre vivo e mio padre morto e mio padre famoso e questo padre qui davanti a me, e non ci sto riuscendo. D’istinto mi verrebbe da dire qualcosa, e penso a una possibile frase: “Ben fatto”. Ma non la pronuncio ad alta voce per paura di sembrare serio o sentimentale. Voglio fargli una foto, così prendo il telefono e scatto. Basta un istante e mi si stringe lo stomaco per il senso di colpa e la vergogna di aver violato la sua privacy in modo così brutale. cancello la fotografia e al suo posto ne scatto una alle rose sul suo corpo. sarebbe stato contentissimo di sapere che quella ragazza così carina lo aveva rimesso in ordine. Avrebbe flirtato con lei.
Non c’è spazio per la leggenda, Gabo («nostro padre apparteneva anche a molte altre persone», anche se «alla fine è diventato figlio mio e di mio fratello») è raccontato prosaicamente, anziano e indifeso, inghiottito probabilmente dalla nebbia della demenza degli ultimi anni, curato da infermiere, vegliato dai più fedeli collaboratori, oltre che dai familiari. Raramente presente a se stesso, ma talvolta comunque ironico, o magari stupito della propria produzione, incredulo davanti a quei libri con la sua foto nelle bandelle. Non è, Addio a Gabo e Mercedes, un libro di memorie che scava particolarmente nel mito propriamente letterario, o anche in quello spicciolo, di uno dei maggiori e più famosi scrittori del Novecento. Del resto Gabriel Garcia Marquez era un mito vivente, super popolare, ma tutto sommato era rimasto un artista riservato.
Come mia madre, mio padre ha sempre tenuto fede alla convinzione che la nostra vita familiare dovesse essere strettamente privata.
Niente leggende, una lunga convalescenza
Non ci sono, nelle pagine del figlio, i pugni rifilati da Mario Vargas Llosa al collega colombiano, l’infanzia povera, la guarigione da un cancro linfatico nei primi anni Duemila, non ci sono gli amici famosi che erano persone di famiglia (Buñuel, Fuentes, Mutis), né tantomeno i ricordi gloriosi, né l’epica delle ristrettezze dei primi anni di matrimonio, quando Gabriel e Mercedes impegnavano oggetti di valore e non al Monte dei Pegni, né tantomeno la rocambolesca spedizione in due parti – sempre per problemi economici – del dattiloscritto di Cent’anni di solitudine.
In questo libro ci sono, semmai, i dubbi e le insicurezze di un figlio che appare smarrito, spaurito, sebbene abbia una posizione consolidata, una famiglia e una professione in California, che scrive capitoli brevissimi, ma tutti sul filo della sincerità e dell’emozione. C’è ammirazione per i genitori, nella misura in cui però la fama e il talento del padre «facevano di lui diverse persone, e per integrarle in una sola mi sono dovuto impegnare».
Senza scrittura, in vita e in morte
Già a partire dal 2004 – dopo la pubblicazione di Memoria delle mie puttane tristi – Gabriel Garcia Marquez aveva confessato una sorta di appagamento, le difficoltà di tornare a scrivere qualcosa con il cuore, ed era stato abbastanza chiaro a chi era attorno a lui che il progetto di un’autobiografia lunga sei volumi si sarebbe ridotto all’unico pubblicato, Vivere per raccontarla. La morte era proprio il contrario di quello che aveva fatto per tutta la vita, scrivere.
Una delle cose che detestava più della morte, si lamentava mio padre, era il fatto che sarebbe stato l’unico aspetto della sua vita di cui non avrebbe potuto scrivere.
Questa testimonianza del figlio, oltre a confermarlo, ci resta dentro e ci ricorda l’inestimabile eredità letteraria di cui può godere ogni lettore.
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