Una raccolta poetica emozionante e crudele che racconta – anche attraverso un’ironia spietata – la rabbia e il terrore di chi vive nei panni di rifugiato, sul destino segnato di nascere femmina nella parte sbagliata del mondo. È “Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa” di Warsan Shire
Nascere femmina talvolta significa avere un destino segnato. È «un nodo», un «preludio di sofferenza» l’essere donna: somala, rifugiata, clandestina. Straniera ed estranea nel proprio stesso corpo che sembra non appartenere a chi lo vive: «Mentre ti lavi il corpo ti accorgi che non è il tuo./ E allo stesso tempo è l’unico corpo che hai».
Il corpo si riduce a numero, se si nasce nella parte sbagliata del mondo. È un fantasma, il corpo, («l’odore di fantasma ritorna»), costruito in forma umana da chi ne stabilisce le regole dell’esistere, da chi lo riduce a argomento politico: «Dio perdoni/ chi spettegola al telefono dopo il Maghrib,/ e tiene il conto delle puttane della famiglia,/ le sharmuto santificate, immaginando/ quale imene frizza dopo il tramonto/ (…) l’ombra / gettata dalla nostra bandiera del disonore».
Nè consolatoria né indulgente
Ancor prima di venire al mondo, per una donna come Warsan Shire, poetessa classe 1988, nata in Kenya da genitori di origine somala, le paure invadono il corpo, le voci cantano una «ninna nanna che lamenta la melanina» e ci si sveglia da quel sonno di creazione «piena di spavento». In questo modo si nasce, scrive Shire nel libro Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa (149 pagine, 16 euro), edito da Fandango e tradotto da Paola Splendore, in questo modo una bambina cresce con «la testa massaggiata col latte della crudeltà» e « la fitta di cratere della femminilità».
Quella di Shire è una raccolta poetica emozionante e crudele che, senza edulcorazioni, racconta la rabbia e il terrore di chi vive nei panni di rifugiato. Lo fa con un’ironia spietata e oltraggiosa trasformata in forma poetica. La lirica non è consolatoria né tantomeno indulgente, anzi al contrario può essere disturbante: «Lo mangi questo? Dico a mia madre, mentre indico / mio padre sul tavolo da pranzo, una mela rossa ficcata in bocca.»
Racconta le storie di chi è costretto a lasciare la propria terra per garantirsi il futuro, di chi è obbligato a vivere costantemente nella paura e a spingere in fondo al cuore tutte le stanze dei racconti proibiti: «Mia madre dice che dentro ogni donna ci sono stanze chiuse./A volte gli uomini, arrivano con le chiavi,/e a volte, gli uomini, arrivano con i martelli./»
Senza infanzia e senza pace
Non hanno infanzia né pace quelle creature nate, come Shire, tra la guerra, nella violenza, nello scandalo di essere donna: «Abbiamo passato l’infanzia / a guardarla stendere antimonio sulla carne rosa/ della papilla lacrimale, / stupirci a occhi asciutti / mentre era a gambe aperte sull’uunsi / il fumo alle caviglie».
Le figlie femmine vengono date in sposa, ancora bambine, a uomini che ne oltraggiano il corpo e le lasciano senza respiro: «Mia madre, sposa bambina siede da un lato, senza un sorriso, senza un respiro».
Il corpo di chi arriva al mondo è circondato da estranei: «una cosa morta che si aggrappa alla vita» e perfino l’amore genitoriale può trasformarsi in famelico, divorante e distruttivo (« Come madri che ci portano dagli esorcisti»), capace di annientare i propri stessi figli, nel tentativo, forse, di metterli in salvo da mani sconosciute:
A volte,
le madri di famiglia
normali, molto simili alla
nostra, si nutrono della vergogna
viscosa che le figlie
sono costrette a secernere
da ghiandole create
per il piacere degli uomini.
Per quanto ci si sforzi a uscire da quella condizione di rifugiati, estranei e stranieri per gli altri e per se stessi, per quanto si lotti forsennatamente, quasi fino a squarciare l’utero materno, («Quando il corpo ricorda, scalcia selvaggiamente»), nel tentativo di lavare le visioni di quegli oltraggi carnali, «I ricordi escono dalle pareti / e la trascinano per i capelli», quello stigma sembra non detergersi mai abbastanza.
I ragazzi ci vedevano e sussurravano
Strega e noi piegavamo il capo, come nuotatrici
in sincrono, ridacchiando con le ugole frementi.
Un grido feroce
Nel tentativo di purificarsi dal male, il male stesso invade il corpo adolescente che desidera la trasparenza, farsi minimo, fino a scomparire:
Adolescenza sfrontata, consumata
In ginocchio, privata del sonno,
malata, perdona le mie preghiere
al Dio delle donne magre,
Istagfirullah, Ya Allah delle costole
Sporgenti, perdonami ti prego,
la carestia nel mio paese.
Diventare fantasmi, prosciugarsi, diventare controluce invisibili, come la morte: «È un sogno diafano, la morte / riesci a distinguerci?».
Warsan Shire canta le voci, benedette e maledette, che l’hanno cresciuta e consegnata alla vita. Lo fa con ironia, beffeggiando il male; lo fa da donna ferita. Canta, Shire, il dolore delle vite di immigrati, madri e figlie, donne nere e adolescenti. La parola poetica si graffia di dolore. Il suo canto, simile agli ululati ferini delle lupe nei boschi, è un grido feroce che chiede un riscatto: per sé tutte e per le donne che come lei sono cresciute con le voci nella testa.
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