Nei racconti di “Sette case vuote” di Samanta Schweblin il fantastico irrompe nel quotidiano e nelle pieghe della normalità, i mostri si trovano sottotraccia. Argentina e cosmopolita, Schweblin ha debiti con i grandi latinoamericani delle short stories, e non solo: dimostra d’esserne erede
L’arte del racconto, perché di questo si tratta, richiede delle doti toto genere diverse da quelle della prosa romanzesca. Il ritmo veloce, la preminenza del congegno rispetto alla caratterizzazione più o meno memorabile dei personaggi, il fascino della sua dimensione cristallina e allo stesso tempo la sua capacità prismatica di trasformarsi in un radar capace di registrare e rendere visibili sebbene in chiaroscuro tensioni subdole, l’inquietudine che si cela nel quotidiano e il lato perturbante della realtà, ne fanno una forma che quando in mano a maestri del genere, potremmo citarne svariati, riesce a definire meglio del “fratello maggiore” romanzo la linfa vitale delle esistenze e le innumerevoli sfaccettature della vita, a dispetto di quanto la macchina editoriale, oggi più di sempre, si trova ad affermare difendendo con le unghie le prerogative e il prestigio letterario dei “fratelli maggiori” romanzi, spesso scadenti e strombazzati ai quattro venti unicamente per mere strategie di vendita. Poi in alcuni casi accade che, anche di recente, fanno la comparsa sul mercato libraio delle raccolte di racconti che ribaltano tali tendenze e al di là delle più ovvie considerazioni sull’eccezione che conferma la regola (perché i racconti non si vendono, perché non c’è quel coinvolgimento che il lettore richiede, eccetera… eccetera…) mostrano quanto il racconto, se obbediente alle succitate caratteristiche, sia vivo e meriti il posto che gli spetta da sempre nella letteratura, basti pensare che la stessa origine della letteratura italiana è prettamente novellistica. È il caso di Sette case vuote (134 pagine, 15 euro) di Samantha Schweblin, traduzione dallo spagnolo di Maria Nicola per Sur. La scrittrice argentina, nata a Buenos Aires quarantacinque anni fa, nella stessa città che ha dato i natali a Jorge Luis Borges, uno degli insuperati maestri dell’arte del racconto, tiene seminari di scrittura creativa in giro per il mondo e a Berlino dove oggi risiede. Importanti riconoscimenti sono arrivati alla scrittrice rioplatense (alla cui tradizione fantastica la stessa autrice riconosce il suo debito, vedi Julio Cortázar e Adolfo Bioy Casares) da prestigiose riviste quali Granta e New Yorker, oltre che da un Premio Nobel poco avvezzo ai complimenti quale Mario Vargas Llosa che non mancherà di lodare il suo esordio del 2002 con la prima raccolta di El núcleo del disturbio, a cui ne faranno seguito, prima di Sette case vuote del 2015, altre due, fino all’ultima in ordine temporale dal titolo Uccelli vivi uscita da noi sempre per Sur lo scorso febbraio, il tutto intramezzato dai due romanzi, Distanza di sicurezza del quale la Schweblin è stata anche sceneggiatrice per il suo adattamento cinematografico di due anni fa per la regia di Claudia Llosa, nipote del sopracitato Vargas Llosa, e il più recente Kentuki (Sur 2019).
Case moltiplicate e perturbante
Le sette case evocate dal titolo (sette come gli altrettanti racconti contenuti nella raccolta) sono in realtà molte di più. Infatti, a parte il dato che all’interno di alcuni racconti le case si moltiplicano in modo esponenziale, tante quante come quelle del racconto iniziale (Niente di tutto questo) nel quale la figlia di una donna anziana si trova costretta ad assecondare le stranezze della madre intromettendosi nelle case altrui, la casa/le case diventano in senso generico il paradigma e il teatro del dramma, le incubatrici del male e del disagio, ben lontane da quell’idea di accoglienza e confort alle quali siamo soliti associarle, case come “Zona disagio” citando il titolo di un’ingiustamente meno letto libro di Jonathan Franzen. Lo spaesamento, la claustrofobia e la sinistra tensione che suscitano le case di cui ci parla Samanta Schweblin esprimono quel concetto che Sigmund Freud ha teorizzato in un saggio nel 1919 con la parola Die Unheimliche e che lo stesso Freud riassume in questo modo: «Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare».
Spaesamento, turbamento
Così nei racconti della Schweblin accade che una donna riceva la visita dell’ex marito e sia assalita dal terrore quando i suoi figli scompariranno insieme ai di lui genitori dal giardino di casa dove poco prima questi si stavano esibendo in bizzarri giochi completamente nudi (I miei genitori e i miei figli), nella fattispecie domandandosi tramite un mirabile espediente narrativo se tutto questo sia realmente accaduto. Nelle sei pagine di Sempre così in questa casa invece una madre in lutto vuole buttare i vestiti del figlio scomparso che vengono trovati ogni giorno dalla vicina alla rinfusa nel proprio giardino. I racconti della Schweblin riescono a condensare in poco spazio quelle sensazioni di spaesamento e turbamento che spesso sono più difficili da trovare, perché insite nelle pieghe della normalità, in pieno sole, con poche parole ed eventi, con un ritmo serrato della narrazione e una sintassi strettamente paratattica che possono far accostare la scrittrice argentina ad alcuni dei maggiori esponenti del minimalismo di scuola nord americana e per esteso ad alcuni dei grandi maestri delle short stories quali Raymond Carver, John Cheever e J.D. Salinger.
L’irruzione dell’irrazionale
Nei racconti della Schweblin a tale poetica si somma l’irruzione dell’elemento irrazionale che arriva con i raffinati passi di una danza degli equivoci allo sgretolamento della realtà. In Il respiro cavernoso, il racconto più lungo della raccolta, un’anziana donna mette via degli scatoloni come normalmente viene fatto in occasione di un trasloco, con la variante che in questo caso si tratta del trasloco definitivo, quello della morte, alla quale la donna si prepara mettendosi alla ricerca delle sue cose lasciate in un magazzino dopo il suo rientro dalla Spagna a Buenos Aires. In questo caso l’ansia classificatoria, il razionale (la classificazione dei proprio averi) va in contrasto con l’irrazionale (la morte), il “totalmente altro” direbbero i mistici. Nel corso di queste rivelazioni sulla contaminazione della realtà con germi del perturbante potremo anche fare delle mirabolanti scoperte come venire a conoscenza dello spazio che occupiamo nel mondo da seduti che ci dice la Schweblin tramite la protagonista di un suo racconto è di Quaranta centimetri quadrati , come nel racconto omonimo, o scoprire cosa è il lavoro dello scappamentista, come in Uscire, il racconto che chiude la raccolta.
Diverse possono essere le etichette da utilizzare per definire la scrittura di Samanta Schweblin nella quale l’irrazionale irrompe variabilmente in modo fantastico o orrorifico nel quotidiano, nella quale i mostri rimangono sempre sottotraccia e con un alone di ambiguità (L’uomo sfortunato), nella quale lo strano si manifesta nel familiare: letteratura fantastica, minimalista, weird e altre definizioni potremmo cercare ma ciò che più conta è lasciarsi trasportare e coinvolgere dai suoi racconti a dispetto di ciò che in molti dicono circa l’essenza strutturalmente non coinvolgente della forma breve che invece in casi come questi di Sette case vuote mostra al meglio uno degli assunti teorici fondamentali di uno scrittore che della forma breve è stato il maestro:
Nessuno ignora cosa sia il punto velico di una nave; luogo di convergenza, punto di intersezione misterioso perfino per il costruttore della nave, in cui si sommano le forze disperse su tutto il velame spiegato.
Quasi un manifesto sull’arte del racconto e per esteso sul narrare di Julio Cortázar, scrittore argentino ed esule, come Samatha Schweblin, scrittrice argentina e del mondo.
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