L’antieroe protagonista di “Memorie di un baro” di Sacha Guitry gioca con il caso, a lungo si sostituisce a esso, alla fine ne è sconfitto. Un ingegnoso romanzo scritto da un protagonista della cultura francese del Novecento: sotto forma di diario, scorrono ricordi così innocenti e seducenti da tirare i lettori dalla parte della voce narrante…
Un mostro sacro di erudizione, cinismo, arguzia e ironia. Un dandy irriverente, avido di vita, collezionista d’arte e di mogli (ben cinque). Un istrione spregiudicato e anticonvezionale, capace di raggiungere vette, come drammaturgo, cineasta, attore e scrittore. un uomo provato da una falsa accusa di collaborazionismo, che gli costò anche un paio di mesi di prigione. Ci voleva, a quasi novant’anni dall’uscita in patria, la pubblicazione di un suo meraviglioso libretto, l’unica opera di narrativa pura a fronte di decine e decine di film e di più di un centinaio di audaci e anche frivole opere teatrali, per ricordarci chi è stato e cosa ha rappresentato Sacha Guitry, nativo di San Pietroburgo, ribattezzato “il re di Parigi”. Amatissimo dal pubblico, un successo fonte di invidia, guardato a lungo di sbieco dalla critica e dall’intellighienza, in qualche modo riabilitato dopo che Francois Truffaut, immune ai pregiudizi, lo incoronò come “Il Lubitsch francese”.
Dissacrante e scanzonato
Il libro riportato alla luce dalla casa editrice Adelphi (pubblicato a puntate su un settimanale nel 1934, in volume l’anno dopo) è la storia di una canaglia fra tragedia e farsa, trasformata in film dallo stesso autore. Memorie di un baro (113 pagine, 13 euro), reso in italiano da Davide Tortorella, arricchito dai disegni dell’autore e da una postfazione di Edgardo Franzosini, è un libro in toto dissacrante, che resta nell’immaginario, per il tono scanzonato della voce narrante (cinquantatré anni, «ho sempre vissuto solamente del denaro altrui», «sono arrivato a possedere diversi milioni», «senza amarezza e rimpianti di alcun genere, sono quasi ridotto in miseria»), e per delle massime niente male. Ad esempio:
Per me un uomo ricco che ha appena chiuso un affare da duecentomila franchi sarà degno di tale cifra soltanto se ai suoi occhi essa prenderà immediatamente la forma di un gioiello per la donna che ama, di un quadro che desidera, o di un’automobile, a seconda dei gusti.
A Montecarlo
Lavapiatti, groom negli hotel, croupier, baro, il protagonista si racconta. Risulta spregiudicato, presuntuoso, cinico, ma molto molto simpatico. Giovanissimo sopravvive alla morte per avvelenamento della sua intera famiglia, era in punizione per avere rubato («gli altri erano morti perché erano onesti») qualche soldo dalla cassa della drogheria di famiglia. Nel Principato di Monaco – lì finisce l’antieroe di queste pagine, dopo essersi reso protagonista di una delazione – c’è il cuore della narrazione di Guitry: scrive dei casinò, dell’abbandono dei giocatori al tavolo verde, delle strategie con cui barare, di come in questo modo un baro si sostituisca al caso che, implacabilmente, guida il gioco d’azzardo. Un racconto così empatico e, per molti versi, innocente da sedurre il lettore, che non impiega molto tempo per stare dalla sua parte…
Redenzione e rovina
La vocazione del baro sarà vissuta fino in fondo dalla voce narrante. Implacabile e politicamente scorretto, Sacha Guitry, con ironia e con estrema sincerità, allestisce pagine di diario che sono uno spettacolo spassoso, dove non mancano anche gli intrighi amorosi e dove si oscilla sempre sulla linea sottile che separa ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Finirà dall’altra parte della barricata, giocatore col demone del brivido: «quando si è giocatori, giocatori sul serio, non si può barare: non ci si può sostituire al caso». Il risultato di tutte queste avventure impertinenti e di tutti questi desideri voraci? La “redenzione” e la rovina, figlia del rischio e del piacere che soppiantano il calcolo del baro, perché non è proprio possibile vincere il fato…
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