Undici racconti postumi di Edith Wharton, sotto il titolo “Fantasmi”, diffondono una luce chiaroscura e indagano presenze che sono, di volta in volta, proiezione dell’inconscio, dilemma morale, super-io e maschere dell’amore. Sulla scia dell’amico e mentore Henry James…
Il grigio è il colore dei fantasmi, non il bianco evocato nelle popolari rappresentazioni per bambini di creature coperte da un lenzuolo, né il nero, suggestione di castelli perduti nell’oscurità. Il grigio è un colore acromatico con minore luminosità del bianco e maggiore del nero. Coerentemente a ciò di cui si parla al suo interno e al perno su cui ruotano gli undici racconti raccolti nel volume Fantasmi (384 pagine, 17 euro) di Edith Wharton (Neri Pozza 2022) grigia è la suggestiva copertina di uno dei maggiori classici della letteratura sul genere, uscito postumo nel 1937, l’anno della morte della scrittrice e poetessa statunitense e ora riproposto nella traduzione di Tiziana Lo Porto.
Il confine tra visibile e invisibile
La luce che si diffonde dai racconti della Wharton è proprio quel chiaroscuro tipico della spettralità e che si confà al meglio all’essenza stessa della materia letteraria (se questa è qualcosa) e alla sua stessa possibilità di esistenza: la fantasia, il silenzio e la continuità. Lo spiega la stessa Wharton nella prefazione al volume scritta per l’occasione e che costituisce un piccolo saggio sulla letteratura fantastica. Sono qui raccolti parte di quei piccoli capolavori che coprono tutta la sua attività letteraria e che hanno accompagnato in modo parallelo tutta la sua produzione, dai romanzi a sfondo sociale della New York di fine Ottocento fino alle opere della maturità che la porteranno a vincere, prima donna, il Pulitzer del 1921 con L’età dell’Innocenza.
Del resto la radice delle due parole, fan-tasia e fan-tasma, è la medesima. Cosa può esservi quindi di più letterario di storie centrate su entità al confine tra il visibile e l’invisibile in un pallore quasi lunare, quale quello del nostro satellite che nel suo aspetto in qualche modo spettrale segna il confine sulla porta del soprannaturale.
«Non credo ai fantasmi, ma ho paura di loro» ci dice la Wharton ricordando questa frase fissatasi nella sua memoria, riassumendo mirabilmente la proprietà più intrinseca di un fantasma che è quella che lega la sua unica possibilità di sopravvivenza nei racconti «di coloro che lo hanno incontrato, sia nella realtà che con la fantasia, e forse preferibilmente con quest’ultima».
Il silenzio degli spettri
Il silenzio è la loro vera dimensione, silenzio e continuità, proprio quello che manca nella cosiddetta modernità, con l’avvento della radio e del cinema ci dice la Wharton, per esteso con il rumore ed il predominio della società dell’immagine che tende sempre più ad atrofizzare creatività, immaginazione e capacità di un’attenzione prolungata.
È il 1871 quando Edith Wharton all’età di 9 anni, costretta a letto da una febbre tifoidea, chiede alla madre dei libri da leggere e questa le dona un libro contenente storie di fantasmi che da allora la accompagneranno per tutta la vita con un senso di minaccia e inquietudine che andranno a costituire una costante e importante materia per la sua scrittura che per il resto verte nei suoi romanzi su una critica alla società tardo vittoriana con una particolare attenzione alla rottura delle convenzioni sociali e ai codici morali imposti alle donne del suo tempo. Edith Wharton ha potuto esercitare le sue indubbie qualità letterarie provenendo da una ricca e agiata famiglia newyorkese dell’Ottocento, potendo dedicarsi a quello che le era più congeniale, andando in moglie a un ricco banchiere afflitto da disturbi mentali dal quale divorzierà (cosa non banale per l’epoca), e diventando scrittrice dopo i quarant’anni, spronata da amici intellettuali e scrittori quali Henry James, i cui echi si troveranno nei racconti fantastici della scrittrice tra cui quelli qui contenuti, e faranno di lei una delle testimoni come lo stesso James di quella cultura cosmopolita del Novecento a cavallo tra America e Europa, si narra che la Wharton, la quale si stabilirà definitivamente a Parigi nel 1907, abbia attraversato l’Atlantico oltre quaranta volte.
I precedenti
Vasta è la letteratura sui fantasmi, tanto da diventare una vera e propria mitologia alla quale oltre alla letteratura ha attinto a piene mani il cinema. I fantasmi di Edith Wharton sono del tutto particolari. Sebbene il loro habitat naturale siano gli oscuri castelli del Nord, quanto di più lontano dai popoli di «cultura mediterranea» ci dice la Wharton, «la natura spettrale» non avrà difficoltà a mostrarsi a chi vi «crederà» anche ad altre latitudini e in qualche anonima casa borghese. L’insuperato racconto su fantasmi (per la Wharton), Giro di vite (ne abbiamo scritto qui), dell’amico e mentore Henry James testimonia la stessa essenza del fantasmatico che per mostrarsi non ha bisogno del classico armamentario fatto di vecchi manieri, catene e lamenti ma ha maggior attinenza nell’ambientazione alla quiete e l’eleganza di case borghesi e soprattutto alla connotazione dei fantasmi come creature interiori, proiezioni psicologiche. Così nei fantasmi raccolti in questo volume, da non dimenticare la raccolta del 1910 dal titolo Racconti di uomini e fantasmi (Elliott 2019) precedente a questa postuma, si ritrovano gran parte dei temi cari alla letteratura della Wharton: la crudeltà riservata a certi destini femminili imprigionati dentro matrimoni claustrofobici e rigide convenzioni sociali, il tutto nel contorno e situazioni tipiche della migliore tradizione dei racconti gotici: campanelli che suonano misteriosamente nella notte (Il campanello della cameriera), occhi cha appaiono nel buio (Occhi), vecchie magioni alla cui guardia vi sono dei cani-fantasma (Kerfol), strane convocazioni da parte di oscure congreghe che evocano presenze soprannaturali (La vigilia di Ognissanti), uomini, figure o solo proiezioni che vengono dal passato e assumono la forma di custodi di vecchie case avute in eredità, inavvicinabili e che si manifestano per vendicare dei torti subiti, alla cui conoscenza si arriva tramite ricerche di archivio (Il signor Jones), fantasmi-cadaveri, perché in fondo questa è la loro prima essenza empirica, come in Una bottiglia di Perrier nel quale l’attesa dell’arrivo di un amico che non si manifesterà mai da parte di uno studente di archeologia assume la grottesca sostanza beckettiana, un racconto alla Godot che dal giallo o noir vira all’horror o gotico che dir si voglia. Ricorrente è il tema del doppio, espressione del labile confine tra la vita e la morte, tra la realtà e la finzione (La signorina Pask). In quest’ultimo si instaura una “vera” e propria conversazione con un morto (o supposto tale), in modo che i lettori possano interrogarsi sul labile confine tra la vita e la morte, tra la realtà e la finzione: «D’altronde ad avermi sconvolto era il fatto che il cambiamento fosse così lieve, che alla fine ci fosse così poca differenza tra l’essere vivo e l’essere morto». Quasi un adattamento in chiave gotica del celebre to be or not to be dell’Amleto shakespeariano. Che crediamo ai fantasmi o meno vale citare un breve passo contenuto in uno dei racconti: «C’è un fantasma? Sì, ce ne è uno ma non lo riconoscerete» (Dopo).
La qualità termometrica
Proiezione dell’inconscio, dilemma morale, super-io, i fantasmi di Edith Wharton sono anche maschere dell’amore (Semi di melograno) e noi lettori ci possiamo domandare in questo caso come possa fare un fantasma a scrivere una lettera e a metterla nella cassetta delle lettere, del resto illuminante è una frase contenuta nel racconto che volendo sintetizzare non è che una banale storia di gelosia con l’aggravante che l’oggetto della gelosia è un fantasma: «Ormai so da tempo che tutto è possibile» e in fondo che la letteratura, e l’amore di cui spesso si occupa, sia una faccenda di fantasmi ce lo ha detto anche il compianto David Foster Wallace; il titolo di una biografia a lui dedicata è emblematico: Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi.
Al lettore l’ardua sentenza di dire se questi racconti posseggano quella qualità indice del loro valore che la stessa scrittrice così definisce: «Qualità termometrica: devono cioè avere la capacità di far scorrere un brivido su per la schiena», quel brivido che magari riusciremo a provare dopo la lettura di questo volume e che forse ci porterà all’ascolto del mistero delle forze dell’invisibile, grazie alla precisione millimetrica degli intrecci e allo stesso tempo alla potenza immaginifica di Edith Wharton, sobbalzando magari a ogni minimo rumore o alito di vento con il terrore di trovarsi di fronte qualche strana creatura, anche se solo per un attimo, sensazioni destinate a svanire con un battito di ciglia, come i fantasmi, come creature interiori, proiezioni psicologiche più “vere” del “vero”, per questo così letterarie.
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