Non si parla di un altro mondo, di un’altra dimensione nel romanzo fantascientifico “La Torre” di Bae Myung-Hoon, ma del nostro presente (sotto mentite spoglie). Un megagrattacielo, sei storie, un dispositivo narrativo formidabile. Tra critica sociale, riflessione antropologica ed ecologica
Un edificio di 674 piani, La Torre, Beanstalk, che è uno stato, con il suo governo, la polizia, l’esercito, 500.000 abitanti. Il vero protagonista del libro di Bae Myung-Hoon, La Torre (240 pagine, 20 euro) – edito da Add nella traduzione di Lia Iovenitti – e delle sei storie che lo compongono. I personaggi e le vicende, nelle storie, si intrecciano, ricorrono, compongono uno straordinario quadro di una realtà distopica, certo, eppure leggibile, nei suoi meccanismi, con gli stessi parametri che usiamo per il presente. L’idea della Torre dà vita ad un dispositivo narrativo formidabile, una grande metafora che ne genera molte altre, offrendo al lettore la possibilità di trovare significati e spunti sempre nuovi che riguardano l’uomo, le sue passioni, le sue paure, la società. Lo stesso autore richiama nell’opera l’inevitabile riferimento alla Torre di Babele, “l’immagine stessa della vanità umana”, ma alla fine del libro scopriremo che forse no, la Beanstalk non è la Torre di Babele, o piuttosto che anche la Torre di Babele, se la guardi da dentro, se ci vivi per 60 anni, alla fine ti sembra un bel luogo, e pensi che valga la pena che continui ad esistere.
Ascensori e guerre
Gli abitanti di Beanstalk vivono la propria esistenza nella torre, la loro nazione è in conflitto con le Cosmomafie e altri nemici, molti di loro hanno la fobia del suolo, il terrore di mettere i piedi per terra, di scendere al piano zero. I movimenti avvengono principalmente attraverso gli ascensori, ed un episodio ruota propria sulla riforma degli ascensori e sulla disputa tra verticalisti e orizzontalisti, cioè tra due modi diversi di progettare e interpretare gli spostamenti dentro la Torre. Ma poi il tema degli spostamenti si incrocia con i conflitti sociali, e perfino con le guerre, perchè anche nel mondo distopico e discronico della Torre ci sono le guerre, e il rischio che un missile cada da un giorno all’altro sugli abitanti di Beanstalk. “Vabbè, chissà quando finiranno, queste dannate guerre”. Così si conclude quella parte, e così è chiaro che non stiamo parlando di un altro mondo, di un’altra dimensione, ma di qui ed ora.
Lo straniamento
Qui ed ora ci sono guerre, c’è la corruzione e il potere che si muove solo per motivi di interesse e manipola e schiaccia le vite delle persone comuni, c’è la solitudine, c’è la tecnologia, i robot, macchine senza anima, la natura, che invece palpita e respira. “C’è stata un’era in cui a rendere bello il mondo ci pensava la Natura”. Il presente, dunque, con le sue domande, i nostri timori, trascorre nelle pagine stridendo grazie al più forte dei meccanismi narrativi, lo straniamento. Quello stesso meccanismo a cui si appella la critica per scandagliare il rapporto tra ecologia e letteratura, laddove è necessario che lo sguardo smetta di essere centrato sull’umano per poterci aprire al creato, al vivente, come punto di osservazione. Nel libro di Bae Myung-Hoon si vede benissimo come lo straniamento accomuni la riflessione ecologica, quella sociale, la scelta stilistica della fantascienza. Non è un caso che la grande letteratura di science-fiction è quasi sempre stata anche letteratura di critica sociale, di riflessione antropologica ed ecologica, da Mary Shelley ad Isaac Asimov, da Philip K. Dick a Kurt Vonnegut, a Valerio Evangelisti, giusto per andare di rapido sommario.
L’anacronismo dell’umano
Immaginare un elefante che viene usato per reprimere una manifestazione di rivolta, o un cane che è una star e rilascia interviste, significa proiettare in una sorta di futuro da incubo un passato da Antica Roma, costringerci a riflettere che ciò che ingenuamente riteniamo discronico è invece la prova dell’assoluto anacronismo dell’umano, che si emoziona, soffre, gioisce, spera e dispera, in forme assolute, per capire le quali gli uomini hanno inventato le storie, ed i romanzi, dove la misura contabile della storia riesce ad incrociare le linee erranti della geografia.
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