La scrittura di Mirfet Piccolo, un rituale espiatorio e salvifico

“Senzanome”, romanzo di Mirfet Piccolo affronta l’abuso sessuale sui minori, intarsiando l’essenza del calvario con una concisione che ne restituisce il drammatico senza essere respingente, imbarazzante o ridondante…

Ogni volta che consegno un pezzo alla redazione, mi ripeto che è l’ultimo. Che non ne scriverò mai più un altro. Raccomandare un romanzo è faticoso e, francamente, mi pare che lo sforzo di rendere un buon servigio all’autore rimanendo equilibrata, ponderando bene le parole, smussando i toni enfatici, cercando di essere chiara, aderente al testo e -perché no- un minimo originale, mi privi delle forze necessarie a rifarlo ancora. Eppure, nonostante i buoni propositi, poi, ci ricasco. Quando ho tra le mani un romanzo come Senzanome (234 pagine, 18 euro), di Mirfet Piccolo, Giulio Perrone Editore, valido per contenuto e forma, meritevole, perciò, del consenso di un vasto pubblico, non posso far altro che rimboccarmi le maniche.
L’argomento che Mirfet Piccolo affronta in questo suo esordio da romanziera – l’abuso sessuale sui minori – è potenzialmente respingente. Pertanto, la responsabilità che mi assumo nel sollecitarne tanto testardamente la lettura, pretende che mi soffermi e sia incisiva, prima che sulla bravura dell’autrice e la bellezza della narrazione, sull’utilità del libro.

Più conspevolezza

Senzanome rappresenta un’opportunità per innalzare il livello di consapevolezza individuale sul tema. Una presa di coscienza che, a sua volta, è propedeutica ad ogni ulteriore azione volta a spezzare il ciclo degli abusi. Il mio convincimento trae sostegno dal seguente passaggio, espunto da Le variazioni del dolore (Einaudi Stile Libero), romanzo autobiografico in cui James Rhodes ha raccontato la sua storia: «Non vorrei scrivere di certe cose. Non vorrei affrontare l’inevitabile senso di vergogna che si portano dietro le vittime di abusi, ma neanche mi va di tacere, o peggio ancora di credere che dovrei tacere, quando la nostra cultura (…) continua a permettere, avallare, favorire e sguazzare nell’abuso sessuale sui minori».
Dare voce a un sopravvissuto è riconoscere il suo dolore, restituirgli l’identità, rendergli onore. Merito che va riconosciuto, in questo caso, a Mirfet Piccolo.

Sottrazione estrema

Ho detto del perché Senzanome è un romanzo importante. Ora tocca entrare nella bottega dell’artigiana e approfondire le opzioni praticate da Mirfet Piccolo per raccontarci, senza pietismi e gestendo con intelligenza il sentimento di repulsione associato alla materia, di una donna che «pur generando non è diventata madre, di luoghi dove ai bambini gli adulti fanno cose terribili sotto lo sguardo complice di altri adulti» e soprattutto della autocostruzione di una ragazza che si porta sulle spalle tale terribile vissuto.
Una storia non è una linea retta che dal punto A, da cui inizia la trama, va diretta al punto B dell’epilogo. Una storia è, piuttosto, uno spazio da saturare con vicende, intrecci, voci, sentimenti. A tale scopo Piccolo erge «una torre Jenga formata da parole-mattoncino», ed è attentissima a non minare l’equilibrio della costruzione sfilandole via, o privandole del loro nascondiglio improvvidamente. Gioca, così, di sottrazione estrema: perfino il nome proprio della protagonista è mascherato in un mimetismo che evolve e si adegua alle varie fasi esistenziali, senza tuttavia svelarsi mai. Frammenta il flusso ininterrotto di dolore in singoli cammei, nei quali intarsia l’essenza del calvario con una concisione che ne restituisce il drammatico senza essere respingente, imbarazzante o ridondante.

Lo spiraglio di serenità

Scompone i traumi – originati di volta in volta dai rapporti familiari, dalla mancata adozione, dalla violenza subita nella casa-famiglia, dal disturbo alimentare, dall’isolamento scolastico, dal mortificante ruolo nella coppia – con il raffinato escamotage di mettere in vista il suo metodo di lavoro. Ci lascia intravedere, infatti, tutti i post-it sui quali ha appuntato gli episodi cruciali e dichiara esplicitamente quale cestina e quali lascia in scaletta, ottenendo, amplificata, una sorta di “omissione significativa” del tipo formulata da Hemingway nella cosiddetta “teoria dell’iceberg”: «Se un prosatore sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse descritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua mole sporge dall’acqua». La scrittura di Piccolo accade come un rituale espiatorio e salvifico. «Ogni cosa ha il suo tempo e il suo spazio ed essi sono precisi, studiati meticolosamente, affinché niente vada storto». La terza voce narrante – neutra ma non incolore, spinosa ma non disturbante, densa ma non opprimente – nella quale si trincera la protagonista – estraniarsi da sé stessa, guardarsi dal di fuori è l’opzione di sopravvivenza – celebra il rito. Decisivo quell’intenso, incessante, salmodiare tra “Senzanome” e sua figlia, con il quale Piccolo insinua tra le pagine lo spiraglio di serenità: un rifugio di libertà, riscatto e conciliazione che definisce e cristallizza la brillantezza del romanzo.

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