Le omelie del rabbino Kalonymus Shapira raccolte in “Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira” rappresentarono la luce nelle tenebre del ghetto di Varsavia, nella morsa della seconda guerra mondiale: atto di amore e fede, che si racchiude nella scelta di una speranza persistente quanto il dolore. Un libro che testimonia la grandezza di chi, non soccombendo alla banalità del male, ma banalizzandolo attraverso la scelta di porlo all’ultimo posto, rispetto alla sovranità della Torà, ha testimoniato la cifra di quegli anni in una maniera incredibilmente vera e coraggiosa. Nuova puntata della rubrica Area 22 (qui le precedenti)
Come guidati da due pareti convergenti, che ci spingono a procedere verso una direzione precisa, la dimensione spirituale e quella mistica che si irradiano da certi scritti possono avere la capacità di illuminare la lettura fino a dar loro una forma che, cominciando dalla semplice ricezione di una sapienza cristallizzatasi in parole ed insegnamenti, diventa un po’ per volta percezione di quell’aura invisibile e incommensurabile che è come l’anima stessa di un libro: Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira (357 pagine, 20 euro) di Kalonymus Shapira, edizioni Giuntina, traduzione di Luigi Cattani.
La dettagliata e chiarissima introduzione di Daniela Leoni è la lente di ingrandimento che ci permette di leggere oltre la schermaglia formale del genere letterario, rendendo possibile un’amplificazione di sentimenti che – di molto – travalicano quel solo e già grande senso di ammirazione che si ricava dalla “semplice” lettura di queste omelie. Significa che, se una luce di conoscenza ti raggiunge da queste riflessioni, l’oscurità che geneticamente ne costituisce lo sfondo storico e psicologico diviene la camera di risonanza di ogni singola parola, di ogni pensiero, di ogni suggestione religiosa o antropologica rivelata dal solo testo.
Oscurità e luce, luce e oscurità
Leggere un libro è già una grazia, l’incalcolabile opportunità di allargare il proprio spazio esistenziale oltre il limite dell’abitudinario collettivo. Leggere un buon libro è un dono e, in proporzione alla grandezza di tale dono, una responsabilità. Leggere un buon libro e conoscere le circostanze di ciò che ha portato alla realizzazione delle sue parti è, più di ogni altra cosa, la maggiore occasione di intimità tra il suo autore e ciascuno che ne ascolti le parole.
Leggere queste omelie, cioè, e contestualizzarle all’interno del periodo terribile in cui furono scritte, e sapere cosa si nasconda oltre il limite visibile della loro apparenza, vuol dire rendersi conto davvero di come non possa esistere un libro senza una vita che lo preceda; non possano esistere pagine senza altrettanti istanti di vita. Istanti come frammenti difficili da tenere insieme a causa della tenebra della violenza, della persecuzione, della morte. Ma miracolosamente sorretti da una luce che permette la vita anche lì dove, tutt’intorno, sembra che la morte celebri la sua ennesima danza.
Nel tempo oscuro in cui, all’interno del ghetto di Varsavia, imperversava lo sconforto, come il più terribile tra i persecutori, la voce del rabbi Shapira divenne la possibilità di aggrapparsi alla Torà, e dunque alla speranza di cui Essa è veicolo, senza che questa dovesse patire una degradazione causata dalla contingenza: come spesso siamo soliti fare quando, nel momento del dolore, facciamo sì che tale dolore prenda il posto di Dio.
Kalonymus Shapira non lo permise mai: le sue omelie – che venivano dalla Luce – avevano a che fare con Dio, con la sua Legge, con la felicità e la speranza dei suoi figli. E se in quella tenebra tutto sembrava perdersi, Shapira concesse alla tribolazione di quegli anni solo il privilegio d’essere presupposta nel momento in cui, leggendo i suoi scritti, tutti avrebbero capito che certe cose (dette in un certo modo) erano da un lato un appiglio puntuale e contestualizzato rispetto alla situazione da tutti condivisa; dall’alto rimanevano assolute da tutto ciò, trasmettendo insegnamenti che – anche oltre “quel” dolore storico – avrebbero potuto produrre i loro benefici: per Shapira il centro di gravità non è l’orrore indicibile del ghetto, ma la forza creativa della Torà. Sembra ovvio, semplice, ma richiede il coraggio di un abbandono totale al Trascendente, proprio quando questo sembra assente dall’orizzonte dell’immanenza storica. È certamente un dolce presagio che la madre di Shapira si chiamasse Channah Berakhah: davvero è come se quest’uomo sia stato generato dalla grazia e dalla benedizione!
Letteralità e attualizzazione
Esattamente come il testo biblico, nel quale si può ancora leggere l’oggi di chi l’ha scritto, e si può ricavare l’oggi di chi – in ogni istante della storia – ancora lo legge, anche le omelie di Kalonymus Shapira mantengono la medesima efficacia. Un esperimento auto-imposto, a suffragio di ciò, mi obbligherebbe a tornare indietro nel tempo di qualche giorno, e a rileggere queste omelie senza l’introduzione; senza sapere, cioè, dove e quando, e in che terrificante circostanza, furono scritte: esse mi direbbero ciò che dovrebbero dirmi, al di là del tempo, e nel “mio” tempo, consegnandomi un’utilità diretta ed esperibile, autonoma, sciolta da esperienze che non furono mie. E solo allora, dopo aver ricavato un tale aiuto da questa letteralità autosussistente, avrei letto l’introduzione come una postfazione, e avrei capito in che condizione furono scritte; e allora il loro valore sarebbe aumentato perché mi avrebbe rivelato – oltre agli insegnamenti sulla Torà – che la Torà è più forte del male, della persecuzione, della morte. Contestualizzando quegli insegnamenti all’interno della loro origine storica, li avrei attualizzati alla mia storia risalendo alla loro origine mistica, che è quella vera e primaria. E del resto questo è il desiderio del maestro chassidico: che il suo discepolo cresca a partire dalla sua propria storia, dalla sua propria esperienza, diventando uomo per mezzo della sua umanità, senza prenderne altre in prestito: il discepolo deve raggiungere una piena autocoscienza delle sue potenzialità, perché possa divenire lui stesso protagonista attivo del suo percorso di formazione nella fede. E per far questo un maestro è disposto a dare la sua propria vita. Shapira lo ha fatto gocciolando gli spasimi della sua ultima esistenza terrena in una donazione di sapienza che non può, simpliciter, essere definita un libro. Un atto di amore e di fede, che si racchiude nella scelta di una speranza persistente quanto il dolore, è un infinito di cui un libro può tracciare solo un’infinitesima parte.
Un intento pedagogico e paterno: riverbero di creazione
Come la parola di un padre al figlio, così l’insegnamento di Kalonymus Shapira, rivolto a coloro che avrebbero potuto trarne conforto, e in modo particolare ai suoi discepoli, risente della performatività che la parola dello tzaddik, del saggio, ha come sua caratteristica propria: quella di partecipare dell’atto creativo di Dio. La pedagogia insita a questi insegnamenti non è solo struttura materiale di un tale genere letterario, ma pura intenzionalità paterna che, nell’alveolo del male, crea uno spazio di vita per il figlio: un bene inespugnabile. Quel sia la luce che – dal caos primigenio – innescò la vita, diventa, nelle parole del maestro chassidico, un identico riverbero di creazione. E questa mistica partecipazione, tra il Creatore e il suo concreatore terreno, gode di una reciprocità sconcertante tanto è al di là delle stesse umane possibilità! Il Dio che obbedisce alla Torà perché costrettovi dalla sofferenza dei giusti, e dalla loro incessante preghiera, diventa la più efficace idea non solo di compenetrazione al divino, ma – da parte di Dio – di compenetrazione all’umano. Il Dio che, dalle parole dello tzaddik, si lascia vincolare, è lo stesso che, dopo aver creato il mondo e la fatica, da questa fatica si lascia sfiancare fino a riposare per primo nel giorno santo dello Shabbat. Anche la sofferenza del giusto perseguitato, dunque, che proprio perché continua a considerarsi peccatore rimane aperto alla possibilità di una salvezza ultima, rimane provvidenzialmente sostenuta dal respiro stesso di Dio, che inspira ed espira giudizio e misericordia, in un incessante processo creativo nel quale il suo figlio riceve vita anche in una situazione di morte. L’ansimo mostruoso della vittima, che boccheggia pietà, ha lo stesso suono del Respiro di Dio, che aleggia sulle acque: la funzione letterariamente immaginifica della speranza mostra, negli indescrivibili dolori di un popolo perseguitato, i dolori del parto di una madre che dà alla luce il Messia.
Stili e stilemi
Ma in che modo funziona tutto ciò sul piano della scrittura? In che maniera un’omelia, e il suo linguaggio, può produrre questo riverbero mistico? La risposta a queste domande diviene l’ennesima occasione per rafforzare un concetto fondamentale: per chi scrive, gli strumenti del mestiere non costituiscono solo la fioritura retorica della sua intelligenza autoriale; essi, quanto più ispirato e illuminato è l’autore, tanto più diventano strumenti della sua stessa anima che (molto ancora rispetto alla sola arte retorica, e da molto più in alto) comunica.
Così, adottando uno stile letterario che accosta le situazioni da un angolo di visuale obliquo, Shapira è come l’iconografo, che si muove tra il testo e il retro-testo con un’abilità istantanea che permea tutta la sua produzione e che, proprio come un atleta impegnato nel salto in alto, gli permette di guizzare dalla parola, e dalla sua composizione etimologica, al suo senso esoterico e mistico!
Per chi – come me – non è conoscitore dei processi permutativi che stanno alla base della mistica testuale ebraica, come la cabala o la ghematria, imbattermi in certe cose provoca uno stupore indescrivibile. Per chi, certo, pur non essendo un cabalista, riconosce già alla “parola” la sua proprietà mistica originaria, ritrovarla ulteriormente espressa attraverso la sapienza religiosa ed espressiva di un maestro è davvero una moltiplicazione di godimenti intellettuali e spirituali! Ed un piacere da tutto ciò generato non può che essere salvifico, come quello d’una consumazione nuziale.
Così, immaginando il maestro che cerca di spiegare agli afflitti come mai il loro dolore perduri nonostante la fedeltà di Dio, che è un Dio di amore, si comprende tutto il senso di una spiegazione che, se già dal punto di vista “tecnico” è capace di innalzare lo spirito, riletta alla luce di questa obliqua intenzionalità mostra un’efficacia cento volte maggiore: È noto che il principe di Esaù è Samael e che, in futuro, la lettera mem sarà rimossa da esso perché fa parte del termine mawet (morte); e allora Dio eliminerà la morte per sempre. Rimarranno invece nel termine le lettere: Sael, che nella ghematria hanno lo stesso valore numerico di YHWH-Adonai.
Certo, per quanto ciò sia meravigliosamente spiegato, è difficile per chi non conosce l’ebraico far suo questo stupore in modo pieno, e comprendere a fondo la bellezza di questo insegnamento. Ma, per capirci, è come se qualcuno, in un momento terribile di persecuzione, ci dicesse: Sappiamo tutti che stiamo attraversando un momento di odio rivolto a ciascuno di noi; ma sappiamo anche che, in futuro, la lettera O sarà rimossa dal termine “odio” perché fa parte della parola “oppressione”; e allora il Signore eliminerà l’oppressione per sempre. Rimarranno invece, nel termine, le lettere: Dio, e Dio è il Signore!
Kalonymus Shapira, dunque, attraverso questi insegnamenti capaci di perforare la parola fino ad una Parola più profonda capace di performare, fa uso del remez, della allusione, che se da un lato rappresenta uno strumento tipico dell’allegoria mistico-ermeneutica dei commentatori biblici, dall’altro – in mano a lui – raggiunge capacità interpretative notevoli. Peraltro, mantenendo un piano espressivo che, al netto di qualsiasi spiegazione “alta”, rimane sempre al livello di una semplice ed immediata fruizione del testo, Shapira non costringe nessuno ad inerpicarsi su alture che siano altre rispetto a quelle della Scrittura. Così, per esempio, le due espressioni sistematicamente ricorrenti: Se così si può dire, e Dio ce ne scampi, diventano l’occasione linguistica ed espressiva che incornicia un più alto intento ermeneutico all’interno di uno spazio umile e colloquiale. Se la prima espressione, indice di opinabilità, è appannaggio di chi considera assoluta solo la Torà (e non la propria interpretazione), la seconda conferma quanto sopra, ratificandolo attraverso uno stilema che, al di là del valore retorico della locuzione, trasforma lo stesso insegnamento omiletico in un morale prolungamento della preghiera, dove interpretare significa – in ultimissima istanza – continuare ad invocare.
Altri strumenti sono quelli del paradosso e della ghezerah shawah: il primo – già fortemente caratterizzante l’ironia degli autori sacri – diventa l’ossimoro metatestuale per eccellenza, dove, come nel caso di Amalek, l’israelita è chiamato a non dimenticare ciò di cui Dio, dalla terra, ha cancellato il ricordo (e pensiamo al bene che questo concetto apparentemente indecidibile potrebbe recare se applicato alle tante giornate della memoria celebrate senza il ricordo più importante, e cioè la vittoria di Dio sul male); come a dire: non ha senso ricordarti della tua sofferenza se, prima ancora, non ricordi che Dio ha il potere di eliminarla per sempre. Quanto al secondo strumento ermeneutico, la ghezerah shawah, per coloro che non sono addentro alla pratica cabalistica, esso diviene quantomeno motivo di sorprendente stupore, poiché ci mette nelle condizioni di capire di quanta originalità sia capace la mistica ebraica: legare due espressioni, magari appartenenti a contesti testuali e narrativi diversissimi, solo perché accomunati da una sola parola! E poiché – lo abbiamo detto – la parola ha una sua propria forza performativa, basta che la Scrittura la ripeta perché questa parola celebri la sua irripetibilità! Nelle diverse accezioni contestuali, la medesima parola può essere come l’unica all’interno del testo, rimandando ad un’ulteriore unicità che – contemporaneamente – si rivela da un’altra parte in una maniera completamente differente ma, allo stesso tempo, all’altra legata da un Intelletto che trascende la Scrittura e la ordina seconda una misteriosa e provvidenziale logica! Come se, per esempio, Genesi 11,3b (Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento) e Geremia 11,27a (Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre, e a una pietra: Tu mi hai generato), che appartengono a cornici letterarie decisamente distanti, ma mai quanto sembra, potessero – messe insieme – condurre ad un solo insegnamento: Il Signore rimprovera a Gerusalemme l’idolatria, la stessa attraverso la quale si pretende assurdamente di poter arrivare al cielo sostituendo altri dèi al Dio del cielo! L’idolatra ammucchia idoli su idoli, come a Babele si ammucchiarono pietre su pietre, arrampicandosi sulla sua stessa rovina.
Si fa di tutto per vivere, perché qualcuno non muoia
L’Olocausto è stata la forma parossistica e decisiva dell’idolatria: quando, al posto di Dio, qualcuno ha intronizzato il puro male. Tante volte si ricorda il male di quei giorni (forse mai abbastanza), e si ripercorrono attraverso pellicole, libri, articoli e testimonianze, i solchi di una sofferenza che – inevitabilmente – ha tracciato una via stretta in mezzo alla storia degli uomini. Stretta perché difficile, impossibile da percorrere. Stretta come il collo di un camino. Ma drammaticamente larga nel numero di coloro che vi sono passati come fumo.
In tutto ciò spesso si crea, quasi inconsapevolmente, come uno spazio d’onore al male; quasi come se l’insieme di tutti questi racconti e di queste memorie producesse, per assurdo, un’implicita esaltazione del male, anziché esorcizzarlo.
In tal senso, a mio avviso, si colloca la grandezza di questo testo e di Shapira in modo particolare: la grandezza di chi, non soccombendo alla banalità del male, ma banalizzandolo attraverso la scelta di porlo all’ultimo posto, rispetto alla sovranità della Torà, ha testimoniato la cifra di quegli anni in una maniera incredibilmente vera e coraggiosa! Parlandone senza parlarne. Ognuna delle parole contenute in questo testo, che solo occasionalmente leggiamo sulla carta, è stata scritta sulla carne del suo stesso autore, e all’inchiostro delle sue lacrime. Questo libro ci mostra quanto, nel sacrificato e innamorato esercizio della paternità chassidica, dare la propria vita significhi donare la vita, e basta: donarla a chi, in un momento di morte, ha bisogno di vivere. Shapira lo ha fatto finché ha potuto: non gli stenti, la malattia o la disperazione lo hanno fermato, ma solo i fucili di un plotone d’esecuzione. Fino a quell’istante egli ha pregato, insegnato, ha scritto e creduto, per amore degli altri. Si rimanda a dopo il momento di morire, quando l’indicibile sforzo di vivere può garantire che qualcun altro non muoia.
Dedico questo articolo al figlio del rabbi Shapira. Sono certo, così, di un suo sorriso dal cielo.
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