L’ineluttabilità del tempo è il tema centrale di “Le fantasticherie di un viandante solitario”, ultimo libro di Jean-Jacques Rousseau, interrotto dalla morte. L’angoscia e lo sconforto della solitudine, una lacerante scarnificazione dell’anima e un amore di gioventù riecheggiano tra queste pagine del filosofo ginevrino, poco conosciute anche fra gli addetti ai lavori…
Mi ritrovo fra le mani, a scaldare queste fredde giornate del mio inverno siciliano, un libriccino fra i meno conosciuti, anche fra gli addetti ai lavori, di Jean-Jacques Rousseau, ovvero Le fantasticherie di un viandante solitario (Lorenzo de’ Medici Press, 150 pagine, 10 euro, con introduzione e traduzione di Ilaria Guidantoni) che solletica da subito la mia innata curiosità, perché ho sempre riconosciuto al filosofo ginevrino la capacità di contrapporsi alla cultura imperante nel XVIII secolo, sostituendo al dominio dell’intellettualismo il coraggio del sentimento e, come sottolineato da E. Cassirer, “di fronte alla potenza della ragione che contempla e distingue, egli scopre la passione e la sua forza elementare”.
La passione, un rapporto critico col mondo
Vivere seguendo la strada della passione, da non confondere con la pulsione che è puro istinto biologico, significa costruire la propria identità attraverso un rapporto critico col mondo, coltivando un atteggiamento di apertura e di tolleranza verso tutto ciò che si differenzia o si oppone al nostro sentire abituale, ma conservando al tempo stesso la coscienza della propria irripetibile individualità, da difendere anche a costo di comportamenti anticonformisti. Il nucleo più interessante, perché è il più sentito, delle teorie filosofiche rousseauiane risiede nel ruolo centrale affidato alle leggi naturali che regolano il comportamento umano. La costruzione della propria identità, e questo emerge prepotentemente nell’arco delle Dieci passeggiate in cui è suddivisa l’opera, non può basarsi semplicemente su una astratta razionalità, perché la motivazione profonda delle azioni dell’uomo risiede nelle sue inclinazioni.
Rousseau nell’opera Scritti sull’Abbè de Saint Pierre sottolinea che: “Se la legge naturale fosse scritta soltanto nella ragione umana essa sarebbe poco idonea a dirigere la maggior parte delle nostre azioni, ma essa è anche impressa a caratteri indelebili nel cuore dell’uomo”.
Sonetto CCCIX
Dicemi spesso il mio fidato speglio,
L’animo stanco, et la cangiata scorza,
Et la scemata mia destrezza et forza …
D’un lungo et grave sonno mi risveglio:
Et veggio ben che ‘l nostro viver vola
Et ch’esser non si po’ più d’una volta.
Per motivi facilmente comprensibili non ho riportato (ma ne consiglio caldamente la lettura) l’intero sonetto del nostro Petrarca, che rende in versi il tema centrale delle Fantasticherie, enunciato palesemente fin dalla Prima passeggiata, ovvero la smagata e accidiosa malinconia dell’ineluttabilità del tempo, che scorre inesorabile e spesso non lascia all’uomo il tempo di poter mettere in pratica ciò che si impara strada facendo, o di poter vedere riparati i torti subiti, che costituiscono spine conficcate in profondità nel fianco sanguinante del filosofo.
Nella Seconda passeggiata Rousseau evidenzia, in maniera estremamente lucida, che la vera felicità non dipenda da nient’altro che da sé stessa, ma nel lettore non può non permanere un’ombra di dubbio, non si riesce a credere del tutto a questa affermazione (peraltro condivisibile), e andando oltre nella disamina dell’opera questa sensazione diviene sempre più palpabile. Ogni sillaba dei resoconti delle solitarie peregrinazioni del filosofo ginevrino, trasuda sconforto, tristezza, angoscia e avvilimento profondo per una sorte che ritiene ingiusta, perché considera il suo stato di vita quasi eremitico una condanna senza appello, inflittagli dal mondo senza sua reale colpa e soprattutto senza che possa far nulla per porre un qualsivoglia rimedio ad una condizione così infelice.
Rousseau in realtà è ben consapevole di essersi scavato la fossa da solo, allontanando da sé affetti e riconoscimenti, a causa di una misantropia esasperata ed assolutamente immotivata (non dimentichiamo che il padre della moderna Pedagogia, che prende vita nell’Emilio, ha abbandonato in un brefotrofio, senza ombra di rimorso, i cinque figli avuti da Thérèse Levasseur, che sposerà solo dopo molti anni di relazione e che tratterà sempre con malcelata sufficienza).
Indubbiamente Rousseau esercitava un grande fascino, almeno di primo acchito, in coloro che avevano la (s)ventura di conoscerlo, quasi da eroe tragico, poi però riusciva ad allontanare quasi tutti a causa del carattere problematico, scontroso, sospettoso e dell’ego ipertrofico che straborda da tutte le su fatiche letterarie. Il povero David Hume credo cerchi di sfuggirgli ancora oggi, dovunque si siano ritrovati.
J’accuse
Sul banco degli imputati de Le fantasticherie di un viandante solitario Rousseau dichiara di aver posto sé stesso, sottoponendosi ad una lacerante scarnificazione dell’anima e citando come antesignani d’eccezione, in quest’analisi drammatica di un vissuto tormentato, filosofi e letterati di tutto rispetto, da Plutarco ad Agostino a Torquato Tasso.
Per quanto il filosofo faccia professione solenne di autenticità, appare tanto più magnanimo con sé stesso quanto più cerchi di mostrarsi severo e intransigente. Devo ammettere che, per chi si accosta alle Fantasticherie, questo rappresenta comunque un pungolo scomodo, perché conduce un lettore non superficiale ad interrogarsi su quanto questo meccanismo pericoloso non sia presente anche nella propria coscienza.
Di grande aiuto alla lettura di quest’opera di Rousseau una scrittura fluida, diretta, quasi asciutta in alcune parti, poco incline ad arzigogolature filosofiche. Nelle Fantasticherie il filosofo palesa la piena appartenenza all’Epoca dei Lumi, da cui per molti altri versi si discosta, perché è evidente lo sforzo di rendere lo scritto fruibile dal maggior numero possibile di persone, sposando in pieno l’ottica illuminista di una diffusione capillare e, in qualche misura, democratica della cultura.
Lo struggimento di un’insanabile nostalgia
Le Fantasticherie di un viandante solitario si chiudono lasciando nel lettore il sapore dell’indeterminatezza, misto a un sorriso di compiaciuta dolcezza, come quegli amori adolescenziali che rimangono impressi nella memoria proprio per la loro meravigliosa dimensione di sogno che tale rimarrà per sempre.
Rousseau lascia incompiuta la Decima passeggiata a causa del sopraggiungere della morte. Rimangono sospese a mezz’aria proprio le rivelazioni più intime e commosse, perché il filosofo, che probabilmente percepisce l’avvicinarsi di Atropo, nell’ultima passeggiata si spoglia completamente di ogni patina di boria e ritorna semplicemente un giovanissimo Jean-Jacques perdutamente innamorato di Madame de Warens, una decina d’anni più grande di lui e nel pieno delle sue grazie femminee, che però seppe con intelligenza, maturità, decoro e onestà, attendere che quel ragazzo acerbo divenisse un uomo.
Vale davvero la pena di far conoscere questa storia ad un’epoca in cui a volte l’amore brucia e consuma ancor prima che il fuoco si sia acceso, lasciando soltanto cenere e malinconia.
“Nel naufragio di tutto, la tenerezza rimane a galla”, ci rammenta Victor Hugo, un’altra anima tormentata dalla sua stessa genialità, ma questa è un’altra storia…
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