“Perdita e meraviglia alla fine del mondo” è un affresco antropologico dell’americana Laura A. Ogden, non una lettura monodirezionale ma uno sguardo in costante apertura sulla Terra del fuoco, ultimo lembo dell’America Latina, e sugli effetti del colonialismo datato primo Novecento…
La Terra del fuoco: così è conosciuto l’ultimo lembo di terra del Sudamerica, quel Cile che si protende verso l’Antartide. Luogo estremo, affascinante, a cui si legano mitologie, leggende, narrazioni, e che è conosciuto da tutti come “la fine del mondo”. In Perdita e meraviglia alla fine del mondo (Add, 240 pagine, 18 euro) Laura A. Ogden, antropologa americana, ci offre un piccolo affresco antropologico dedicato alla Terra del fuoco e innervato di riflessioni che sanno farsi universali. Lo fa partendo dalla doppia suggestione del nome geografico: un luogo particolare, la Terra del fuoco, che scopriremo essere in parte intriso di costruzioni di senso e retoriche, ma anche un luogo noto per la sua natura debordante, tuttavia soggetto a mutamenti generati da dinamiche umane. Il grimaldello dell’autrice scava nell’estetica di questo posto così letterario che tiene insieme perdita e meraviglia e scardina la lettura lineare di una geografia che diventa un universo ricchissimo. Una Fine del mondo che forse, più che una suggestione leggendaria, evoca un appellativo carico di storia e vicende che hanno mescolato insieme uomo e natura.
Coordinate geografiche e teoriche
“Il luogo di questo libro è l’arcipelago fuegino della punta meridionale del Sud America. Il tempo di questo libro è l’eterogeneo tempo perduto prodotto dagli effetti in corso del colonialismo nella regione. La forma di questo libro è un archivio di perdita e meraviglia”. Laura A. Ogden mette subito le carte in tavola, e sono carte da antropologa, lette e interpretate su quel binario, senza mai sganciarsi da una disciplina che unisce insieme fonti, archivi, sensibilità personale, geografie e incontri. Il senso del lavoro dell’autrice è chiaro, come spiega indicando un luogo geografico preciso, un contesto – quello coloniale dei primi del Novecento – e un metodo che si basa su un’antinomia: da un lato la perdita, dall’altro lo splendore. Non sempre in antitesi ma costantemente, invece, connesse nello sguardo con cui approcciarsi a questa geografia. Capitolo dopo capitolo, il rincorrersi di perdite e di meraviglie diventerà fruttuoso, anteponendo da un lato ragionamenti su ciò che è stato e non è più, dall’altro riflessioni su quanto di incredibile ancora accade.
Il pregio di questo percorso antropologico nella Terra del fuoco non è quindi solo specifico, cioè portare il lettore alla scoperta di aspetti di questa zona del mondo spesso così lontani e retoricamente deboli da non arrivare alla superficie, e dunque da non essere noti. Quello che l’autrice aggiunge è una proposta metodologica per accogliere, capire come leggere e accettare l’enorme complessità che questo luogo, la sua storia, le sue popolazioni autoctone, la sua natura rivelano all’occhio attento di chi non si accontenta della superficie, ma alza il velo per scoprire una fittissima rete di interconnessioni che hanno plasmato e modificato la Terra del fuoco nell’ultimo secolo.
Il senso di un archivio
Il lavoro di Laura A. Ogden parte dalle fonti d’archivio, e in particolare da ciò che l’esploratore e antropologo Charles Wellington Furlong ha lasciato dopo la sua esperienza immersiva, ai primi del Novecento, tra le terre e le popolazioni autoctone fuegine, gli yagàn e i slek’nam. Un patrimonio ricchissimo di ogni fonte etnografica che l’esploratore riuscì a raccogliere e dei suoi pensieri: da un lato la Ogden ritrova e riflette su dermatoglifi (impronte di piedi), registrazioni effettuate con antichi fonografi, fotografie, dall’altro cerca di esaminare i diari di Furlong, di seguirne racconti e pensieri, quelli di un uomo bianco che, suo malgrado o no, si trovava nella Terra del fuoco come mandatario dello spirito coloniale bianco.
Da ogni tipo di traccia emerge ancora, e con forza, la contingenza di perdita e meraviglia che dà forma a questa ricerca: fotografie, pagine autografe, ma anche voci e suoni registrati su antichi e fragili cilindri in cera… Tutto, tra le mani e lo sguardo della Ogden, cerca un posto in un universo in divenire. E non lo trova, o almeno non trova una collocazione univoca: “la perdita e la meraviglia sono motivi costanti nella composizione del presente”, spiega l’autrice. E dunque l’esplorazione dell’archivio non è di per sé una ricostruzione di un mondo, delle sue popolazioni oggi quasi inesistenti, della sua cultura, ma la ricomposizione di un itinerario che ha più a che fare con la generazione di modi di pensare, di rappresentazioni, di costruzioni di senso ancorate ad atteggiamenti e spesso figlie dell’imperialismo bianco. La fine del mondo è sì la fine del mondo fuegino per com’era prima che arrivassero i coloni, e la natura selvaggia forse non è mai stata tale, da sempre sottoposta all’addomesticamento umano, spesso sfuggito dalle redini. L’archivio mostra insomma, interrogato oggi, che le tracce possono raccontare mille storie diverse, se osservate con attenzione.
Fotografare il doppio
Dentro questo percorso di ricerca compaiono oggetti, dinamiche, riflessioni e questioni disparate. Ci sono diari o fotografie, ma anche castori e licheni, ci sono racconti personali, episodi di esploratori primonovecenteschi, performance di teatro sperimentale e ragionamenti teorici – l’amato Derrida, il cui concetto di traccia ricorre più volte. È un universo pieno di tasselli solo apparentemente scorporati. La loro connessione è garantita dallo sguardo attento dell’autrice, a sua volta generato dall’esperienza di ricerca e dal vivo interesse sia teorico che pratico. La Ogden non cerca risposte precise – sa di non poterne avere – ma opta per una ricostruzione e si cala con coscienza dentro la complessità.
Nel momento in cui approfondisce la figura di Furlong e il suo porsi come uomo bianco tra i nativi, per esempio, cita una app che permette di fotografare insieme il soggetto davanti alla camera e quello dietro, così che non si scorpori rispetto a un’immagine totale che immortala quel momento, quella situazione, tutte quelle persone unite da lacci differenti.
Ecco, la metafora di questa posizione ben definisce lo stare insieme di perdita e meraviglia: nella Terra del fuoco e nei segni antropici che la sua sedicente wilderness riporta, in ciò che oggi resta delle popolazioni native, nelle pagine di storia violenta e impositiva del colonialismo bianco, nelle logiche di economia e in quelle di comunicazione e semiotica. In ogni tassello del composito quadro ricostruito in questo libro c’è sempre una foto doppia, del recto e del verso, di quello che si vede oggi e di quello che era ieri, di quello che è e di quello che potrà essere.
Nelle storie dei castori, in quelle dei pastori delle pampas fuegine, nella perdita della lingua nativa e nel ricorrere imperialista del nome di Darwin in mappe, nomi di piante e animali, non c’è mai una lettura monodirezionale ma uno sguardo in costante apertura. È il mestiere dell’antropologo, è l’atteggiamento condiviso dalla Ogden, ma è forse anche l’unico modo per restituire il senso più profondo, inafferrabile perché contraddittorio e in costante cambiamento, di un luogo così carico di storia, natura e fascino.
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