Nella notte di San Lorenzo non è detto che il cielo pianga e basta. Può darsi che una di quelle stelle cadenti, in una notte di qualche anno fa, fosse un’anima luminosa precipitata sulla terra come una goccia d’inchiostro su un foglio bianco. E non è affatto detto che il 13 sia un numero sfortunato, se coincide con un tredicesimo libro come questo: Ciatuzzu (Rizzoli, 272 pagine, 18 euro), con il quale Catena Fiorello (nella foto di Luca Brunetti) si conferma ancora una volta scrittrice più che talentuosa, cesellando in manufatti preziosi scene di vita quotidiana in cui – a dispetto di qualunque superficiale definizione di ciò che chiamiamo straordinario – la profondità diventa scelta artistica, necessità narrativa e introspettiva, inconfondibile marcatore stilistico.

Un cantiere di aspettative

La piccola introduzione, questa sintetica e somma prolessi al contrario, cioè quasi l’anamnesi di un’intera esistenza, fornisce immediatamente tracce sullo spessore delle pagine che seguiranno, costituendo un cantiere di aspettative talmente promettente che – seppure manchino ancora, in queste prime righe, tutti i materiali narrativi che da esse si svilupperanno – invita a leggere avidamente fin da subito, per capire fino a che punto Catena sia disposta a mantenere la promessa di una tale premessa.

Appaiono già, dalle prime battute, le tipiche realizzazioni linguistiche della Fiorello, poetici contraltari alla odiosa morbosità di quelle parole di circostanza che, troppe volte, in tanti altri libri, sforano le quinte della narrazione per diventare esse stesse un lessico morboso e circostanziato: rischio impossibile con la nostra autrice che, al contrario, nei suoi classici polinomi linguistici, riesce a produrre manifestazioni intense e perfettamente scenografiche. Questa l’impressione, per esempio, nell’incontrare (una tra tante) la formula sospesi in una bolla di stordimento: non importa che tu abbia avuto la stessa esperienza del protagonista, perché capisci immediatamente cosa significhi, tanto sul piano visivo quanto su quello emotivo. Per capirci… Quando lessi Picciridda (preziosissimo gioiello di questa scrittrice), provai il medesimo senso di eloquentissimo impatto all’espressione angelo calpestato che, oltretutto, non si riferiva alla protagonista – se non come geniale e profetica anticipazione – e che tuttavia, per un istante, creò un romanzo nel romanzo, un completo universo contenuto all’interno di un altro e, allo stesso tempo, da quello assolutamente indipendente, con una carica lessicalmente tanto efficace da procurare, in una sola esplosione di suono, un turbine di sentimenti: disagio, pietà, tenerezza, indignazione, e senso di colpa per il semplice fatto d’essere vivi. Tutti semi! Geniali e stramaledettissimi semi!

Ecco, le espressioni della Fiorello – semplici come il dogma vernacolare di una saggezza antica e cristallizzata dal tempo e dall’inchiostro – producono sempre di questi effetti traboccanti. Sono le rare, sempre più rare occasioni in cui per un momento ti rapisce il sospetto che, in libreria, t’abbiano chiesto meno di quello che avresti dovuto spendere. Ti senti ladro per un istante, complice di chi ha scritto quelle parole. E scopri d’essere in fuga insieme a lei, che vuole portarti verso un rifugio sicuro, una storia talmente ben nascosta oltre il velo delle apparenze, che più non ti spaventano le lontane sirene delle abitudini che, dalla lettura, vorrebbero riportarti alla realtà. Tu, però, sei già dentro la verità di una storia. E non si scambia la verità per la realtà! Mai.

Un’apparente intertestualità

E poi, proprio mentre mi soffermo su queste considerazioni, e penso a quanto questo piccolo nuovo protagonista sia carico come una bomba di chissà quali future sorprese, ecco che, a poche pagine, arriva la prima! Una sorpresa grande, inaspettata (perché sarebbe stato troppo ambizioso aspettarsi di ricevere un simile dono), tutta cupa e allo stesso rilucente nella figura d’una cunzamorti, una donna che veste i defunti. La Fiorello pensa ai suoi lettori e non li abbandona lungo i sentieri del tempo, lì dove hanno incontrato figure importanti, e così intesse per loro una stupefacente liaison letteraria, un’intertestualità solo apparente, perché – e te ne accorgerai, desiderandolo, capitolo dopo capitolo – andrà molto oltre l’allusione, molto al di là della semplice citazione.

L’intersezione narrativa eccellente, quella che produce un contatto tra due storie senza che, necessariamente, l’una debba dipendere dall’altra. Questo rispetta tutti: i lettori e le loro personali cronologie di lettura; i personaggi e la verità delle loro proprie storie; ed anche l’autrice, che rimane libera dalle sue creazioni, come da lei lo rimangono le sue meravigliose creature: date alla luce e poi libere, per sempre e per mai, anche di incontrarsi. Certamente di vivere in eterno.

La lettura, animata da questa vitalità tutta sua, completamente libera nel mondo delle possibilità senza tempo, prende vita senza averne persa neanche un poco: si raddoppia nella sua fluidità e potenza, e ciò appare tanto più evidente quanto più impensabile è lo sfondo in cui accade: le tristi e lacrimate processioni umane, dove tutto sembra che sia finito. Dove il racconto descrive la morte, l’arte del racconto si invola in un impeto di forza che non ti fa staccare gli occhi dal foglio. Ed io, a quel punto, ho messo sul giradischi Mediterraneo, di Mango. Perché adoro ogni sorta di languore sinestetico che possa aggiungere bellezza a bellezza.

Le pagine macinano la contraddizione del funebre che viene somministrato come un vaccino ad un bimbo in cui dovrebbe risplendere la vita; una vita già obbligata dagli eventi a diventare ricordo. E in questo – grandioso! – l’accusa rivolta ai Compari di Lassù comincia a trasformarsi, nell’implicita logica retrotestuale, nella stessa attenuante della loro pietà. Solo che per ora può capirlo solo il lettore, non ancora il protagonista, quando si racconta nell’ombra del suo sé bambino! Sfumature extradiegetiche che fanno il peso di un testo, quel peso che non pesa affatto, perché la pagina spezza ogni proposito di resistenza.

Descrizioni come carezze

I sentimenti dei personaggi, e del protagonista in particolare, sono descritti con profondità, senza trasformare il testo in un saggio di psicologia infantile, rispettando un genere letterario come si dovrebbe rispettare un bambino. Chiunque tra noi, dovendo descriversi bambino, e dovendo rivedere ciò che hanno visto i suoi piccoli occhi di un tempo, racconterebbe con immenso rispetto quei primi sentimenti, senza concedersi le comode licenze del senno del poi… Al massimo, utilizzeremmo espressioni più mature, più articolate, per dar forma a ciò che da piccoli percepivamo in egual misura senza però essere ancora in grado di descriverlo: La mattina seguente ci sorprese una giornata di sole, tanto bella da sembrare una vendetta. Espressioni che un bambino non potrebbe ancora realizzare, ma che egli stesso, cresciuto, è capace di riconoscere a se stesso. Immensa tenerezza di un adulto che si prende per mano, che si ritrova a passeggiare con il sé di tanti anni fa, e che gli suggerisce – adesso e con le giuste parole – cosa provava e cosa sentiva; che gli descrive (descrivendolo a noi), come attraverso amorevoli carezze, lo spessore di quegli stati d’animo allora così complessi da riconoscere ed ordinare.

Vi è dunque, sul piano narratologico, la magnifica e difficile (e qui riuscitissima) triangolazione tra storia, narratore e personaggio: un confine in cui è difficile mantenere l’equilibrio, in cui è facile che uno dei tre piani cada all’interno degli altri due. Non succede. E tu che leggi ti ritrovi nel mezzo di questa triplice relazione idiomatica, avendo la sensazione meravigliosa che – in fin dei conti – la Fiorello ti abbia fatto accedere, attraverso un magico pensatoio, all’interno di altre memorie che ora ti appartengono quasi per una mutua confidenza di anime.

Ciatuzzu

Titolo azzeccatissimo per questo libro, e non solo perché rievoca – fin da prima che se ne sfogli una sola pagina – le atmosfere care alla Fiorello e a chi già ne ha letto altre opere. Azzeccato perché rivelatore, performativo; perché – quasi come un sacramento – ripresenta al suo suono le vibrazioni di un’intimità che sola può descrivere l’amore di una madre per il suo bambino.

Commovente quando, ad un certo punto, il memore e riconoscente narratore – e dietro di lui la nostra Catena – fa di tutto per spiegarci la portata semantica e simbolica di questa parola, tutta fatta dell’inesprimibile mistero che, però, già dalla sua pronuncia comincia a dispiegarsi. Quella fricativa palatale sorda [ç], che non è certamente né una C né una S, non è un -ch, non un semplice –sc, ma qualcosa di più, qualcosa che non si può capire se prima non si fa silenzio. E allora… ecco che, con un dito davanti al naso, una Mamma fa il leggerissimo, sussurrato suono del silenzio: ssssh…, perché sta per dire una parola magica che di questo stesso suono è fatta: ciatuzzu, come un’antica Miriam di tanti anni fa, al suo bambino, abbracciandolo a sé in quella fredda grotta, avrebbe potuto dire nafshi: vita mia, anima mia, mio nefesh, respiro mio. C’è dentro lo stesso suono, come dentro al fruscio di un fiore (ciuri), come nel risciacquo silenzioso di un ruscello (ciumi). Come dentro l’anima di Nuzzo, il protagonista. Ed è bellissimo che quella doppia Z confligga così visceralmente con quell’altro suono! C’è tutta, in questa contraddizione sonora, la fatica del nostro piccolo Nuzzo, che deve inverarsi pagina dopo pagina insieme alle sue consapevolezze, alla sua nostalgia, alla sua accettazione di un mondo tutto apparentemente senza Mamma. Un’assonante somiglianza, quella tra il titolo e il protagonista, tra il nome con cui lei lo chiamava e quello con cui si chiama lui, che però è già una promessa di identità infine definita e pacificata, ricavata da un cuore buono e senza alcuno sconto di pena. I personaggi della Fiorello pagano sempre in anticipo il prezzo con cui conquisteranno il tesoro della loro vita!

Il pescatore

Qualche allegro sorriso, prima di arrivare ad uno degli snodi più importanti di tutto il romanzo, dove il sorriso cambia natura e si fa tenerezza.

Ho provato un senso di indicibile soddisfazione nell’attendere, insieme a Nuzzo, che dalla friggitrice venissero tirati su gli ARANCINI… A buon intenditor poche parole!

E poche pagine dopo non ho potuto che identificarmi con lui, interrogato da Don Pippo su quale fosse il suo nome! «Ah, perciò ti chiami Ianu». «No» sottolineai seccato, «u me nomi è Nuzzo». E mi è sembrato di rivivere per l’ennesima occasione una scena già molte volte ripetuta: «Ah, perciò ti chiami Tanu». «No, il mio nome è Nuccio!». Come ti capisco, Nuzzo! Una scena che, però, al di là del siparietto onomastico, rivela quella chiara comprensione del che condurrà il protagonista a non entrare mai in contraddizione con le strutture portanti della sua coscienza. Così come il romanzo, nel frattempo, pur indugiando sui necessari dialoghi dialettali, non diventa mai il palcoscenico d’una commedia di Martoglio, ma rispetta il tenore narrativo del dramma.

E poi arriva lui, un personaggio apparentemente indistinto tra i tanti, tra le tante comparse di quel lido, così attentamente vago da richiamare l’attenzione. Qui, in questa breve parentesi, non si piange solo per il ritorno di scene altre, che appartengono a questo libro pur senza appartenervi, ma per essere precipitati dentro la bravura di una penna che, utilizzando l’anima innocente di un bambino come il cristallino di un occhio, capovolge un’immagine sulla retina della realtà. Qui la Fiorello è maestra senza appello contrario, regista di una scena che sei costretto ad accogliere nella sua intrinseca purezza, senza sovrastrutture di condanna lì dove, senza saperlo, un bimbo prega per Erode. Questa è – a mio avviso – la pagina più alta del romanzo. L’ho letta e riletta, molte volte, senza poterne sfuggire. Ho dovuto arrendermi ad una delle più efficaci realizzazioni simboliche del bene che trionfa sul male, proprio attraverso l’inerme potere del suo candore. Ma capisco anche coloro che, in questa pagina, potranno non incontrare appigli di memoria ma solo nudi elementi descrittivi che, in ogni caso, produrranno indiscutibile bellezza. È già un tormento doverne parlare senza poter dire, incespicando nel tentativo di dover descrivere ciò che può solo raggiungerti. Il sorriso cessa d’essere allegro, anzi, si spegne. Poi si riaffaccia sul volto del lettore, con una tenerezza infinita verso quell’anima buona.

Un’anima buona che vive le inquietudini delle sue sofferenze: sedimenti che precipitano lentamente all’insù, dall’inconscio alla coscienza, cominciando come oscurità e diventando sogno: e ritorna, nel breve tumulto onirico di Nuzzo, e in pochissime battute, tutto il Mito della caverna; il luogo in cui dobbiamo scendere a compromessi con la nostra ombra, per ricavarci la verità delle cose. Anche qui, in poche righe, non si può non rimanere affascinati dalla facilità con cui l’autrice è capace, attraverso il sogno di un bambino, di schiudere il senso di cose alte e profonde. Nuzzo, perciò, supera il suo personaggio e diviene prisma di molte altre luci, permettendoci di riconoscere tutti i colori del nostro spettro (e dei nostri spettri) attraverso di lui. È uno di quei casi in cui, insieme alla finzione narrativa entro la quale un personaggio è innestato, riesci a cogliere perfettamente la sua funzione simbolica. Funzione che oltrepassa la finzione ed entra a forza nel vero.

Tutto il potere del detto e del non detto

Come nelle partiture dei più bravi musicisti le note più belle si intervallano ad altrettante pause, capaci anch’esse d’essere musica, così nel romanzo della Fiorello molte cose vengono dette senza dirle. Questo libro ha un suo linguaggio del corpo: posizioni mute di potente eloquenza. Come quando Nuzzo, cercando di descrivere un misterioso senso di vergogna che vergogna non è, lo confronta con tutte le sensazioni simili già registrate dalla sua esperienza. Tu sai che si tratta del pudore, ma non puoi aiutarlo. Dovrà arrivarci da solo. Qui si scorge una metatestualità raffinata, dove il Nuzzo adulto, quello che racconta, evita di parlare del pudore, quasi a non voler interferire con la crescita naturale di quella coscienza che, ad un certo punto, giusto una trentina di pagine dopo, sarà capace di riconoscere quel sentimento da sola, e proprio attraverso l’amore. L’io narrante si comporta come il super-io di se stesso, lesinandosi il giusto, crescendo insieme al ricordo del suo proprio ricordo, senza intervenire né concedere, finché non sia possibile o necessario, l’aiuto di una sola parola. Il divario che ne risulta, meravigliosamente tessuto dalla Fiorello attraverso gli stessi inquieti sentimenti del bambino, che nella picciridda dei suoi sogni scioglie i primi nodi del suo giovane cuore, si colma al ritmo di un’immaginazione che ricorda Stendhal: Il pudore offre all’amore l’aiuto dell’immaginazione, ed è come dargli la vita.

Questo succede con quella bambina.

Dopo quella frase – tra poco mi aspettano gli esami di quinta – che ti costringe ad un conto alla rovescia che non vorresti ripercorrere per nessuna ragione al mondo, riconoscerla finalmente amata, e di un amore che merita, è un trionfo di commovente dolcezza, una restituzione di giustizia dove ciò che di più giusto possa esistere è proprio l’amore. Un trionfo che avviene poco fuori dall’entrata di un cimitero. E poiché la Fiorello così descrive l’imparzialità di questo luogo – neutrale, disinteressato ad assorbirci in una precisa identità – allora quell’incontro sarà l’esatto contrario, sarà la fucina di identità precise.

Così come commuove rivedere ancora, prima che sia calpestato, quell’angelo bianco all’inizio del decimo capitolo. La poetica implicita di certe scritture ha un modo tutto suo di riportare in vita i morti: ne allunga ancora l’esistenza prima che ad altra esistenza s’involino. Ed è principalmente in questi interventi, tutti decisi dalla mano di una scrittrice come una Moira, che comprendi quanto certe inserzioni siano concesse non solo ai lettori, e per loro, ma anche a chi scrive: una Moira che tesse il filo di una creatura, e può a tal punto innamorarsene da non volerlo tagliare. E se anche fosse stato tagliato, essa conosce mille modi per riavvolgerlo ancora ed ancora, fino ad un prius ac posterius eterno. Se, dal punto di vita letterario, tutto ciò può essere solo una strategia, per il cuore di uno scrittore è una necessità affettiva che nessun altro, se non uno scrittore come lui, può comprendere. Chi scrive, scrive sempre contro il tempo! La sua battaglia è opposta a quella di Kronos: uno scrittore, e una scrittrice come Catena, non divora mai i suoi figli. Li partorisce e poi li fa crescere, crescere sempre. Li lascia liberi di vivere e di morire, ma non se ne separa mai. Sarebbe impossibile. Ogni libro è ciatuzzu per chi lo ha scritto, e di questo la Fiorello ha ricamato un emblema.

E anche quando incontri espressioni come quel dopo due anni, e in testa fai due conti, e capisci che già certe cose sono irreparabilmente accadute, una scrittura che ti ha educato alla sorpresa della speranza, e di una vita che si riverbera sempre, apre ancora il tuo cuore ad ogni possibilità di realizzazione: il cantiere delle aspettative continua a lavorare, senza fermarsi un attimo, scavando come dentro una miniera e incalzando a picconate i ritmi della narrazione, perché coincidano con quelli sempre più urgenti dell’attesa. Attesa che, inevitabilmente, si estende lungo i guard-rail del tempo, da un lato sgomentandoci (perché il tempo, quando passa, fa sempre paura) e dall’altro proteggendoci, impedendoci di precipitare in pietraie oltre la Storia, quella degli uomini, quella con la S maiuscola: è l’ultimo grande servizio svolto da questo romanzo, quello – cioè – di non fermarsi alla storia raccontata tra le sue pagine, che già sarebbe bastata a renderci più umani, ma a trasportarci su un livello di consapevolezza maggiore, esattamente come accade a Nuzzo; un livello in cui, con l’avvento di una maturità offesa ma non già ferita a morte, consapevolezza e responsabilità civile arrivano a coincidere in una capitolazione che, se di politico ha qualcosa, ce l’ha senza inquinamenti di faziosità ideologiche: nel cuore del piccolo Nuzzo, che è diventato grande nel modo più autentico, rimanendo “piccolo” quel tanto che basta per potersi amare e raccontare, i sentimenti e gli ideali diventano un tutt’uno che in nulla corrompe – ma che anzi nobilita – la sua nuova età: il valore preziosissimo della memoria, che come una vanga scava in pericolosissime profondità, ricavando dalla roccia della caducità umana i ricordi più importanti, come pietre preziose. Ricordi talvolta neri come carbone, consegnati ad un bimbo quasi come una punizione dalla befana del tempo, ma capaci di accendere e nutrire fuochi grandi e appassionati, per il tempo che verrà.

Una fine come un inizio

Fuochi che, proprio nel momento in cui uno li avrebbe considerati spenti, si riaccendono nell’ultima grande sorpresa: quella di un ricordo che si fa carne, e che ci fa udire la sua voce. Ultimo confortante tributo reso dall’autrice ad un personaggio che, quasi come un angelo custode, ha vegliato su ogni pagina del libro senza permettere a Nuzzo il penoso lusso della rinuncia, insegnandogli che bisogna credere e sperare oltre ogni possibile ostacolo della vita. Ricapitolazione somma che riporta tutto all’inizio, senza tradire né i ricordi né i sogni, magnificando ogni sentimento, trasformando in un inizio la fine stessa; o meglio… trasformando la fine in “un fine”, uno scopo di esistenza: scegliere la salvezza degli altri per cercare la propria.

Due anime riunite in questa comune offerta che – usando le parole ancora una volta altissime di una Catena certamente prima lettrice del suo libro, e più commossa e innamorata di tutti noi – somigliano ad un’ostia, l’Ostia di una liturgia celebrata in rigoroso silenzio. Quel silenzio che comincia con uno ssssh… e che, dal respiro di una Mamma, diventa ciatuzzu.

Nulla, proprio nulla avviene per caso…

Caro Nuzzo, oggi è il 25 gennaio e presto la tua storia sarà letta e conosciuta. Molti cuori ti ameranno per la tua anima buona, ti chiederanno di non fermarti, di resistere, di continuare a sperare e di diventare grande senza perdere la piccola e infinita misura di te stesso. E tu li accontenterai. Molti cuori, grazie a te, ameranno la tua Mamma, perché è da lei che sei venuto; perché il grembo di una Mamma è la più bella ispirazione da cui possa nascere un bambino o un racconto; o il racconto di un bimbo.

Sai, Nuzzo? La tua storia ha aiutato anche me. Il 25 gennaio di due anni fa anche la mia Mamma ha raggiunto la tua. E leggere queste pagine, in questi giorni, mi ha fatto capire una cosa importante: le preghiere di un bimbo, davanti ad una foto rinfrescata dall’acqua, sortiscono sempre un effetto grandioso, anche quando questo bimbo è solo il personaggio di un libro. Perché l’amore di un bambino è così potente da superare il confine di una pagina e farsi reale, oltre che vero!

E se tu, in quelle lunghe e calde mattine, non fossi andato lì, e non avessi chiuso gli occhi cercando la tua Mamma nell’infinito, questa storia non sarebbe mai stata scritta, ed io – in questi giorni per me così importanti, così pieni di ricordi – non l’avrei mai letta. Invece è successo, e la tua memoria ha disinfettato la mia, e ti dico grazie. Ti voglio bene, Nuzzo. Finalmente l’ho detto.