Le poesie di Margherita Ingoglia contenute ne “La malagrazia – Ballate (delle) disturbanti” sembrano un unico lungo componimento. Un’autobiografia atipica, profondamente intima e irriverentemente libera
Presente indicativo, prima persona singolare del verbo essere: “sono” è la parola chiave delle poesie di Margherita Ingoglia che – in realtà – sono un’unica creazione in versi.
Essere poesia: ne La malagrazia – Ballate (delle) disturbanti (132 pagine, 14 euro), pubblicato da A&B, la poetessa si personifica in tutto ciò che le trasmette un’idea di propria identità. Si identifica in tutto ciò in cui si rivede e che riconosce come estensione del proprio essere. Le sue poesie, così, diventano un unico componimento (sarà forse per questo che nessuna ha un titolo). Tutti i versi si congiungono, fondono i loro bordi tra loro e – come tasselli di un mosaico – ci regalano il volto di chi li ha concepiti.
Non è il volto di una donna. Non è il volto di un uomo. Si va oltre il genere.
Margherita è dolore. È pioggia. È peccato.
È l’abito bianco di una sposa condannata all’altare e alle violenze patriarcali. È preghiera rivolta ad un uomo costretta a venerare.
“Percorro la navata con fierezza di dama,
sono uno squillo di cattedrale.
Ho la corona da condannata.
Funziono nel ruolo di femmina amata.
Una bambola d’arredamento.
[…]
Mi devi essere fedele. Mi devi servire.
[…]
Non era così che la storia finiva,
non era così che l’avevo sognata.
Sono legata, in catene.
E il visser per sempre felici…
è una storia che non mi appartiene”
Oltre Eva e la mela del peccato
Margherita è seme di mela che si inghiotte a dispetto di un matrimonio non voluto e di cui non se ne conosce la colpa, di tale punizione. Va oltre Eva e il morso alla mela, va oltre il peccato – sfidandolo.
“Andavo in moglie al divino,
per scontare una pena
che mai ho potuto conoscere.
Io, per dispetto, mangiai seme di mela:
che l’albero mi cresca in corpo”.
Margherita Ingoglia si fa terra, quindi. È chi trova identità solo dentro gli abiti che non sono concessi. È chi svela il proprio sé perché riesce ad essere fuori dalle chiese e non più in ginocchio ad altari che non si vogliono venerare.
Margherita è libertà dopo tanto tempo al buio, a nascondersi, a fingere.
“Col timore di non piacere ti avvolgevi di nero: scomparendo ti sentivi al sicuro […] Ti ostinavi a volerti cambiata. Desideravi essere altro da te, e così eri, al comando. Degli altri. Fingevi.
Libertà di genere e numero
Libertà dall’uomo, prima. Dal giudizio, poi. Dalle forme e categorie in cui qualcuno o qualcosa ha imprigionato l’essere.
“Segretati per non scomparire, lascia quel posto in cui comoda non riesci a sedere, abbandona la stanza in cui non puoi camminare leggendo, ridere senza ragione”.
Si può essere qualsiasi essere animato o inanimato. Si può essere eremiti. O madri di sé stesse. O il sangue bianco di una stella. Ma anche una divinità – femminile, stavolta.
“A Dio non mi sento distante
…
Mi somiglia Le somiglio
Al pari dei Papi voglio essere Papessa
Vescova e Arcidiacona
Regina delle favole silvane”
Non c’è genere e non c’è – soprattutto – numero: si può essere molteplici essenze, forme.
“Mi rifaccio Medusa.
Ora sono me stessa”.
Identità molteplice e indefinita
Margherita Ingoglia compie un viaggio dentro di sé. Ce lo dona, insieme a qualcos’altro.
Perché dopo aver trovato la sua identità – molteplice ed indefinita nelle sue molteplici definizioni – ci offre la strada per trovarci, capirci, abbandonare forme che non vogliamo.
“Cercatemi in ciò che non è donna né sposa
e non è neppure uomo.
Sono nei domani mai arrivati a oggi.
Cercatemi tra i panni stesi, secchi di sole.
[…]
Nelle pance consumate dei cesarei,
Nelle scommesse perse.
Tra le mancine.
Cercatemi.
Vi troverete”
La malagrazia è un’autobiografia atipica, quindi, ma profondamente intima e irriverentemente libera.
“Mendichi.
Sonnambula e impaziente
di tornare a gridare il tuo nome
senza sesso né pelle”.
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