Un dialogo complesso, fra mancati incontri e incomprensioni, quello fra il poeta Paul Celan e il filosofo Theodor W. Adorno. Le loro lettere presentate come un romanzo storico nel volume “Scrivere poesie dopo Auschwitz” di Paola Gnani. Gli ermetici messaggi nella bottiglia che erano le poesie di Celan, dopo la Shoah, mitigarono certe perentorie idee di Adorno
Uno scambio epistolare scritto come un romanzo storico (e filosofico): questo è l’esito di Scrivere poesie dopo Auschwitz (179 pagine, 15 euro), edito da Giuntina, mirabilmente scritto da Paola Gnani. Traduttrice e studiosa esperta di letteratura tedesca, la professoressa Gnani è autrice in senso stretto, non solo curatrice dei testi. È riuscita infatti a ricostruire con grande maestria le tappe di un dialogo complesso e fatto di mancati incontri e incomprensioni, quello tra i due co-protagonisti ovvero il poeta Paul Celan e il filosofo Theodor W. Adorno. L’intreccio biografico e tematico viene ricamato e gestito con cura e ottima tecnica narrativa. La Gnani non si limita infatti a fornire la cornice degli eventi o a supportarli con la dovizia di particolari di chi si è andata a cercare le fonti ad una ad una; ella racconta così bene la vicenda da diventare, senza invadenza, indispensabile per il loro dialogo, che rivive postumo forse più chiraramente di quando erano in vita.
No a un lirismo speculativo e ipocrita
Non possiamo che partire dal titolo, ciò che mi ha attratto sin dall’inizio. Il tema s’iscrive nel delicato dibattito del secondo dopoguerra che portò alla revisione critica di molti concetti della filosofia e della letteratura. Su tutti, si cita iconicamente Il concetto di Dio dopo Auschwitz, di Hans Jonas. Questa catarsi non poteva che nascere all’interno dell’ebraismo, all’indomani della Shoah; anche Celan e Adorno, evidentemente, sono ebrei. Per farla breve, nel 1962 Adorno (specialista nella filosofia estetica) pubblica il saggio Engagement (che finirà nella raccolta Note sulla letteratura). Qui egli si lascia andare ad una frase dal senso iperbolico – più volte chiarito e corretto negli anni successivi – in cui si afferma che l’orrore di Auschwitz è talmente grande da chiudere il varco alla poesia. Se presa alla lettera, poteva sembrare una resa, una riduzione al silenzio di fronte al dolore immenso, troppo. Ma qui scatta la protesta, che Celan annota leggendo questo saggio: “qual è la concezione della poesia che viene messa sotto accusa? La presunzione di chi ha il coraggio, ipoteticamente-speculativamente, di considerare o raccontare Auschwitz dalla prospettiva dell’usignolo, oppure del tordo”. Due sono qui le considerazioni: la prima, è che Celan è d’accordo con Adorno nel rigettare una poesia opportunista, un lirisimo speculativo ed ipocrita, vacuo e/o presuntuoso. Cioè: Adorno avrebbe ragione se e solo se la poesia fosse quella: ma non è mai poesia quella roba lì… esercizio stilistico sul dolore. Ovvimanete nemmeno Adorno ha mai pensato una sciocchezza simile. Mi viene in mente una strofa di Ungaretti, il poeta italiano prediletto da Celan: anche se ci fossero le migliori intenzioni, nulla potrà l’usignolo fra arse foglie come in un fermo fumo/ con tutto il suo sgolarsi di cristallo (da Ultimo quarto).
L’antisemitismo e la lingua degli assassini
La seconda considerazione, che si evince dalla lettura del libro, è che tutta la vita il poeta ha combattuto con questa (ed altre) accuse: quella di essere, con la sua poesia, un mistificatore della realtà, un simbolista onirico, o al contario un narratore fazioso perché impegnato, perché ebreo. Già, ecco uno dei temi centrali della storia (in molti sensi): l’antisemitismo. Celan scrive in un’epoca in cui ha la piena consapevolezza di quello che in molti non dicono: che la Germania non aveva fatto i conti fino in fondo con l’accaduto, e che era in atto un meccanismo di rimozione anche per la sola necessità di andare avanti. E questo per l’autore è stato un tormento che è divenuto verso gli ultimi anni un’ossessione. Temeva – all’inizio non a torto – di essere estromesso solo perché era il primo a scrivere, in tedesco e per versi, degli orrori dello sterminio, e per questo i critici volevano negare alla sua poesia un valore di verità. Proprio lui, che di tedesco non aveva nulla, rumeno scampato per poco alla Notte dei cristalli, che aveva vissuto due terzi della sua vita in Francia, si ostinò ad aggrapparsi alla lingua in uso dalla madre, un po’ per non spezzare il filo con una patria perduta (e mai più ritrovata altrove), un po’ con l’intento programmatico di dare un contributo riqualificante alla lingua degli assassini, aprendo nuove prospettive di senso ad una lingua nobilissima ma che sembrava condannata a diffidare ormai dal bello (cfr. p.100), a destinarsi alla sobrietà e un rigore espiativo.
Fughe e ritorni
Nella costruzione di Paola Gnani questo appunto/disappunto salta fuori verso la fine, e questo la aiuta a costruire la ricerca tra i due. Storicamente, a quanto pare l’incontro personale tra Celan e Adorno è avvenuto prima del ‘fattaccio’, a cui il filosofo farà seguire un’apparente freddezza nel rapporto. L’autrice senza mai dirlo esplicitamente argomenta contro questa ipotesi di lettura, che lo stesso Celan adotterà. Non diciamo il falso quando affermiamo che in parte si tratta di un saggio storico: viene ricostruita non solo tutta la costante fuga (da sè stesso) di Celan, ma anche la seconda parte della vita di Adorno, quando rientra dagli USA e di come sia inserito negli ambienti accademici europei, fino al rapporto incerto con il movimento studentesco e il parallelo aumento conflittuale coi suoi colleghi: accusato di essere inadatto sia di qua che di là. Per tornare al rapporto tra i due, e anche alla questione di partenza, prima della pubblicazione (postuma) della Teoria estetica, Adorno più volte aveva mitigato o rivisto la sua celebre affermazione «Nessuna poesia dopo Auschwitz».
Isole sospese sul nulla
Nell’ultima pagina, la Gnani riporta l’omaggio esplicito che Adorno fa della poesia celaniana, «capace di dire col silenzio l’estremo orrore, e il loro contenuto di verità come un fatto negativo». Potremmo quasi dire che Adorno parli di poesia apofatica in riferimento a Celan. Questo nasce dal fatto che il poeta scriveva con metafore forti, dure come le pietre, autentiche sassate sovente. Tra narrazioni sconnesse e ritornelli, le sue immagini sembrano isole sospese sul nulla: significati abissali, appena percepibili. Le poesie di Celan vanno lette per intero (e più volte) per provare a contestualizzarle: ecco perché ho scelto di non riportare alcun verso, contrariamente alle mie abitudini. Prendetelo come invito alla lettura, magari a partire dal testo di Paola Gnani. Il suo linguaggio era molto ermetico, di difficile comprensione per gli stessi tedeschi, che a parte alcuni si dividevano tra chi non capiva e chi non voleva capire. Ma questo non va preso come nolontà a comunicare: egli mutuò da Mandelstam l’idea che la poesia possa essere un messaggio nella bottiglia, lanciata chissà dove e chissà per chi. Fossero vissuti più a lungo, il poeta Celan e il musicologo Adorno sarebbero stati messi d’accordo da Sting coi Police. Si sarebbero fatti una risata insieme, finalmente, Adorno considerato da Celan una sorta di grande saggio della Montagna dell’ebraismo, e Celan considerato da Adorno colui che ha fatto in qualche modo risuonare la poesia tedesca dopo Auschwitz.
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