“A Parigi con Marcel Proust” è un prezioso saggio di Luigi La Rosa, ritratto lontano dagli stereotipi dell’artista e delle sue strade parigine, del suo talento e della sua solitudine, del suo diventare adulto. Il diario di un autore per cui l’ingombrante presenza di Proust è una “vera e propria ancora di salvezza”…
Il numero 44 di Rue Hamelin e l’8 bis di Laurent-Pichat e poi, ancora, il 102 di Boulevard Haussmann ed il 9 di Malesherbes e, con loro, il civico 45 di rue de Courcelles: cinque indirizzi della Ville Lumiere dei giorni nostri, che il tormentato ma determinato protagonista ed io narrante di questo prezioso lavoro firmato da Luigi La Rosa prova qui ad unire, nel tentativo di «connettere per segmenti ideali tutti quanti gli approdi di questa grande anima».
No alla vulgata
A Parigi con Marcel Proust (200 pagine, 17 euro) pubblicato da Giulio Perrone editore, nella collana Passaggi di dogana, è innanzitutto un ritratto a tutto tondo del padre della Recherche, delineato passo passo e senza alcuna fretta – l’attesa non è forse uno degli assi portanti della opera proustiana? – in una sorta di taccuino; da consegnare, senza infingimenti e per l’uso che ne vorrà poi fare, al lettore.
Che si troverà tra le mani un resoconto breve ma denso e con degli obiettivi certamente ambiziosi, non fosse altro per il proposito, tanto accattivante quanto insidioso, di volersi incamminare su un piano inclinato e per giunta sdrucciolevole, pur di restituire, anche attraverso fatti inediti, l’immagine di un uomo diverso da quello che “nella vulgata corrente avrebbe tracciato una linea netta divisoria tra sé e gli altri, tra il proprio genio e la grettezza dei piccoli uomini”. Uno, tra tutti? Il suo impegno senza sosta e pieno di fervore nell’Affaire Dreyfus, a difesa del povero capitano ed a fianco di Emile Zola e del suo vecchio professore e mentore Alphonse Darlu.
Il legame tra vita e opera
A Parigi, tra una lussuosa dimora ed un giardino, tra una panchina ed un grand hotel, ma soprattutto a piedi e mani nudi nel tempo nella Francia visitata dai Proust – padre, madre e fratello, con l’aggiunta di persone varie, molte delle quali molto importanti per il Nostro – l’estensore di questo diario – stretto tra un amore ormai al tramonto ed un altro che di colpo sembra palesarsi – si muove tra la fine dell’Ottocento ed il primo ventennio del secolo successivo, compulsando foto e testi, cronache e racconti, intenzionato com’è a capire perché, oggi, a distanza di un secolo, quella presenza così ingombrante sia diventata per lui una “vera e propria ancora di salvezza”, pronta ad offrirgli la finzione come salvifico riparo.
C’è molto, in questo diario, del Proust che, in ogni momento della sua vita sembra sempre tendere consapevolmente verso la Recherche, fino a legarsi in modo indissolubile alla sua opera. Così come c’è molto del suo talento e della sua solitudine, della sua voglia di vivere, di amare, di essere presente e partecipe nel quotidiano – “Proust esce quasi ogni sera e […] salta da un invito all’altro” – e poi, improvvisamente, schivo e chiuso, per necessità, nella sua camera isolata dal mondo.
L’uomo e la sua scrittura
Dalle prime esperienze delle giovanili “frasi modulate, lunghe come romanzi” alla impossibilità di rimanere invischiato persino nel più tranquillo rapporto di lavoro procuratogli dal padre, e poi da I piaceri e i giorni al postumo Jean Santeuil, per non parlare della evidente incapacità di venire a patti “con gli aspetti più elementari dell’esistere”, l’immagine di Marcel che esce fuori da questo lavoro è quella di un letterato che, man mano che la sua opera si compone, smette i panni del “cronista a la mode”, per diventare l’uomo adulto che non esita a lasciarsi “ingoiare dall’esofago di un tempo magnetico e vivo”, ma che al tempo stesso “non ha [del tutto] smarrito l’abitudine a vivere”. Ed è evidente, nel lavoro di Luigi La Rosa, l’invito ad avvicinarsi o a riscoprire, dapprima l’uomo e, poi, la sua scrittura che “si apre di continuo, si moltiplica, trascende”.
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