La storia non è né scabrosa né depravata, come potrebbe sembrare. “Dalle rovine” di Luciano Funetta affronta una riflessione sull’arte e sulla scrittura e, nella contrapposizione tra romanzo realista-psicologico o quello fantastico, sceglie una terza via, come Sàbato, mostro sacro della letteratura…
Era il 2015. Mi precipitai in libreria perché Dalle rovine (184 pagine, 12 euro) di Luciano Funetta, edito da Tunuè, tra i candidati allo Strega, doveva essere mio.
Ne parlavano tutti. Da brava San Tommaso, in questi casi di brusii persistenti ed insistenti, io devo toccare con mano. Diffidente lo ero.
Quando leggi di un “romanzo visionario”, “poco convenzionale”, “fuori dagli schemi”, “coraggioso”, la curiosità è tanta, ma non scarseggia neanche il sospetto che si esageri.
Taglio corto e dico subito che Funetta “aveva ingarrato” un gran bel libro. Tanto che mi è venuto il desiderio di scrivere, a scoppio ritardato, uno dei miei consigli di lettura a proposito.
Un racconto onirico
Se gli aggettivi riportati sopra significano, tradotti in soldoni, che il romanzo può aspirare ad un posto stabile nella “letteratura” alta e ha tutte le carte per non essere un fuoco di paglia, allora concordo con gli “aggettivatori seriali”.
La scrittura mai dilettantesca – Funetta era allora un esordiente ma non un principiante – è perfetta. Non solo sotto il profilo sintattico-grammaticale, soprattutto nel senso che è giusta, calibrata, perfettamente calzante alla trama: lucida come si conviene ad un racconto onirico.
La storia non è né scabrosa né depravata. È vero: il protagonista, Rivera, usa dei serpenti per masturbarsi e si avvicina all’ambiente dei film porno o – come si dirà meglio a pagina 28 – «cinema delle solitudini»», ma il nucleo centrale del racconto non è né il sesso né la depravazione fine a sé stessa.
Tornare alle origini
Mi addentro in un territorio fantascientifico e avanzo l’ipotesi che di fondo, sottotraccia, Funetta abbia affrontato scientemente e coscientemente una riflessione sull’arte, in particolare sulla scrittura. Tutto ciò che i protagonisti dicono sul cinema è perfettamente calzante anche alla letteratura. «Bisogna cambiare registro» disse tra sé Alexandre, dal nulla. «Tornare alle origini, a quando l’arte e la fame erano la stessa cosa. Dobbiamo essere uomini che dipingono scene di caccia in una grotta, affamati che cacciano e disegnano nello stesso momento e con i medesimi strumenti». È questo che Funetta ha in mente: tornare alle origini. I suoi personaggi sono, nella istintività ragionata dei loro pensieri, null’altro che uomini della grotta che dipingono scene di vita.
Il dubbio resta circa la “fedeltà” del pubblico. Indagare se e fin dove il lettore è disposto a seguire l’artista nel suo percorso verso nuove forme e nuovi confini, sembra essere un nodo importante per lo scrittore pugliese. A pagina 60 si legge: «Abbiamo messo un estratto dello Specchio on line (…) per mettere un po’ di curiosità ai nostri affezionati estimatori».
«I tuoi estimatori. La tua congrega di fedeli» disse Alexandre. «Cosa vuoi che capiscano? Stavolta hai trovato una materia che non puoi controllare. Non saranno in molti a seguirti». «A me piace credere che invece lo faranno» disse Birmania.
Birmania ha avuto ragione. Gli estimatori, i lettori sono stati numerosi ed entusiasti.
Vi è mai capitato, mentre visitate una città per la prima volta, di fermarvi davanti ad un particolare scorcio che vi rimanda ad un altro angolo del mondo incredibilmente somigliante?
Un accostamento audace
A me spesso. Mi succede anche leggendo. Nel mezzo di una pagina, di un’azione, di una descrizione, in un romanzo ce ne ritrovo altro.
Mi è successo appunto mentre ero immersa in Dalle Rovine
Il bello di essere nello spazio piccolo ma confortevole di un proprio pezzo – parva sed apta mihi – è godere di certe libertà. Quella di tentare l’accostamento – che suonerà ai più sacrilego – tra Ernesto Sàbato – mostro sacro della letteratura sudamericana – e Funetta, esordiente nostrano, è tra queste.
Nel libro di Funetta fa capolino l’Argentina: lì mi è partito “l’embolo” di mettere in relazione “Dalle rovine” con “ El escritor y sus fantasmas” di quel gigante che è Sàbato o meglio ancora con “Il rapporto sui ciechi” inserito in Sopra eroi e tombe – nella mia top 100 dei libri della vita. Mi ha solleticato l’idea che Funetta si sia tenuto in scia della grande tradizione onirica della letteratura sudamericana. Non saprei riassumerla meglio – questa intuizione – se non affidandola a citazioni testuali dagli scritti di Sàbato.
«I grandi problemi della condizione umana non sono adatti alla coerenza, ma sono accessibili unicamente a quella espressione mitoproteinica, contradditoria e paradossale, affine alla nostra esistenza». Per Sàbato la letteratura pura è finita. «È arrivato il momento di abbandonare le questioni estetiche per affrontare i problemi dell’uomo e del suo destino».
Un dio non scrive romanzi
Nella prefazione a Sopra eroi e tombe Ernesto Franco, a proposito dei protagonisti del romanzo scrive: – «Ogni personaggio racconta o ascolta la sua parte di storia e la storia di tutti passa di mani in mano come un gesto infinito dove ogni persona cerca la propria verità in quella dell’altro. In questi personaggi della solitudine c’è come una comunione terrena». Analisi perfettamente calzante anche ai tipi partoriti dalla penna di Funetta.
Sempre in maniera ardita azzardo che Funetta, nella contrapposizione tra romanzo realista-psicologico o quello fantastico, scelga appunto la terza via alla Sàbato: «irrompere nel fantastico, non come artificio ludico o preziosità letteraria» – cito sempre dalla prefazione di Franco – «ma come metafora ossessiva della condizione umana».
Sàbato dice che la sua vera patria sta «in quella regione intermedia e terrena, quella regione duale e lacerata da dove sorgono i fantasmi della finzione romanzesca. Gli uomini scrivono finzioni perché sono fatti di carne, sono imperfetti. Un Dio non scrive romanzi».
A me pare che anche Funetta e il suo Dalle rovine appartengano al medesimo luogo.
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