In “Tabacco clan” Giuseppe Lupo riesce a percorrere i sentieri impervi e complicati dei ricordi mai guastati dalla malinconia o dal più grigio cameratismo, presentandoci ragazzi ormai non più tali, conosciutisi nel periodo di massima precarietà economica e sentimentale, a Milano, e che non si sono più persi di vista. Il sospetto è che non si parli solo di loro…
Non può certo attribuirsi solo al caso, la frequente nascita di amicizie durature ed importanti, proprio nel periodo di massima precarietà economica e sentimentale della nostra vita. In quegli anni, sì, nei quali, giovani arbusti in balia del vento e, come tali, incapaci di incidere sulle sorti del mondo, non sappiamo ancora cosa ne sarà di noi. Chissà, forse ci chiediamo, se potremo continuare, perché non braccati dal bisogno, a «valutare le direzioni e assaporarle tutte, senza la fretta di dover scegliere»; se saremo così abili dal non rimanere spettatori, ma protagonisti o se, viceversa, per dirla con i Pink Floyd, non avendo sentito lo sparo dello starter, un giorno, guardandoci alle spalle, capiremo che per noi, che non abbiamo capito che bisognava correre, non c’è più tempo (Time, appunto).
Fuori sede all’università
Tabacco clan (224 pagine, 18 euro) di Giuseppe Lupo (Marsilio) è la storia di una di queste amicizie di una vita, nata non si sa esattamente quando, perché «nessuno è in grado di risalire al momento preciso» in un pensionato universitario, tra studenti fuori sede. Un sentimento che resiste al tempo ed ai cambiamenti, personali e non. Sedici ragazzi legati – posso, credo, usare l’espressione “per sempre” – formalmente da una gerarchia dai titoli altisonanti, secondi solo a quelli del circolo Pickwick di Dickens, e nel loro intimo, da quello che il personaggio narrante descrive come un «invisibile filo di corrente elettrica [che] passa sopra di noi, e [al quale] noi ci aggrappiamo con tutta la forza che abbiamo, poco conta se gli attribuiamo il nome di amicizia o un valore ancora più misterioso dell’affetto».
La memoria che lascia cicatrici
I componenti del Clan – a proposito, il gruppo si chiama così per via del famoso tabacco che, come loro, «è a sua volta una miscela di vari tabacchi. Un miscuglio di voci, una babele di provenienze» – si ritrovano, senza essersi mai persi, tutti insieme, dal direttivo (il Presidente, detto Pres, il suo vice, detto Vice Capellone e Alfio Segretario) ad ogni altro componente presente ed arruolato, in un albergo sul lago, in Piemonte, al matrimonio dei figli e lì, complice la paradossale ed a tratti inquietante latitanza dei due piccioncini, si abbandonano, tra gli sguardi spesso attoniti delle famiglie presenti a quel “matrimonio di fantasmi”, ad un esercizio della memoria che “lascia cicatrici”, ma consente loro di continuare ad interrogarsi sui molteplici quando, perché e come, della loro convivenza. Il loro segreto sta nel fatto di non pretendere “di riconoscere somiglianze con i nostri vent’anni”.
Quelle domande
Muovendosi apparentemente in modo solitario, ma pur sempre in coro e senza mai trasgredire la grundnorm del «non raccontarci guai», gli ex ragazzi del Clan tornano sui temi caldi della loro convivenza: dal Dio «che si adorava nel pensionato, tenebroso e imperscrutabile», al rapporto con le ragazze; dal declino del Novecento (il nonno che voleva essere accompagnato alla tomba), alla loro idea di vita, per certi aspetti simile a quella di Noodle, il protagonista del capolavoro di Sergio Leone, fino ad arrivare, giocoforza e probabilmente non sempre in modo consapevole, all’interrogativo di fondo, il più alto, il più incisivo e al tempo stesso impegnativo, e cioè del perché «la vita cerca il meglio delle stagioni nelle epoche più insospettabili».
Si interroga il clan, sul come e con quale bilancio uscì fuori da quella «geometria degli affetti» che nella metropoli del bere, lontani solo fisicamente da origini pur sempre presenti e vitali, rendeva tutti loro «pesci di terraferma», per usare una felicissima espressione di Maurizio Padovano.
Attratti e spaventati da Milano
Si interroga sulla sua permanenza, a tratti inspiegabile e spesso stridente, nella Milano dell’efficienza e dell’edonismo, delle ferree regole del profitto e della competizione, la città «grande orizzonte dove facevano capolinea le ambizioni e le delusioni di quelli come noi, attratti e spaventati da quel modo di essere città». E, anche questa volta, senza mai abbandonarsi alla malinconia riparatrice o ad un più consueto passatismo, si accontenta (o forse, no?) il gruppo, delle risposte che si riesce a dare, perché, tanto, ci sarà ancora un’altra, ulteriore occasione.
Con un incedere attento e sempre molto, molto piacevole, Giuseppe Lupo riesce ancora una volta a percorrere i sentieri impervi e complicati del sentimento privo di paillettes, dei ricordi mai guastati dalla malinconia o dal più grigio cameratismo e ci porge, in una bustina di tabacco, il modo più autentico di conoscere i ragazzi, ormai, non più tali, del Clan. Anche noi, a questo punto, una domanda ce la facciamo: ma, siamo sicuri che si parli solo di loro?
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