“Amianto” di Alberto Prunetti è una lettura che riconcilia con la letteratura working class italiana. La storia di un operaio specializzato dell’Italsider, della sua malattia legata all’amianto, della sua morte, di una battaglia legale. Una vicenda che tocca tanti…
Dopo Titanio (qui l’articolo), eccomi a raccontarvi Amianto di Alberto Prunetti. No, non ho ceduto al fascino della chimica a svantaggio della mia passione per la lettura!
Chiedo scusa per la battutaccia, che non sarà l’unico neo di questo pezzo. Le riflessioni che seguiranno travalicheranno di molto, probabilmente, il tono soggettivo che pure le recensioni più oggettive esigono. Avverto montare nella mia voce, infatti, una modulazione insolitamente confidenziale, intima. “La storia operaia”, affidata alle pagine del romanzo dall’autore toscano, è un sentiero che conosco a menadito. Circostanza, questa, che contribuirà a scandire il ritmo delle mie parole e mi spingerà “fuori traccia”, a parlare più di me che di Amianto.
Mi rimetto alla vostra comprensione e alla magnanimità dello stesso Prunetti: perdonerete se ciò che sto per mettere nero su bianco assomiglia principalmente a un brano di un diario privato, che ha poco del consiglio di lettura nel quale dovrei raccontare la bravura di Prunetti, i punti di forza della sua narrazione e sottolineare molte volte, a matita rossa, l’importanza sociale e politica del servizio che rende alla letteratura working class.
Ogni diario che si rispetti deve custodire delle confessioni. Non posso prescindere dal versare l’obolo. Ammetto di aver ronzato, tutti questi anni, intorno ad Amianto. Una storia operaia, (192 pagine, 13,30 euro), riportato nelle librerie nel 2014 dalle Edizioni Alegre, desistendo ogni volta dal proposito di leggerlo. Non mi sentivo pronta ad affrontare un romanzo – inserito in una riflessione di Prunetti più generale e complessa – che presagivo essere fondamentale per la costruzione di un’epica delle classi lavoratrici.
L’Italsider e la mia infanzia
Sono figlia di un pensionato dell’Italsider di Bagnoli. Mutua da tale fatto autobiografico il mio interesse per la letteratura centrata sulla classe sociale che ha necessità, più di ogni altra, di recuperare le proprie generalità – rectius non farsi strappare in mille pezzi la carta d’identità da operazioni ideologiche orientate ad omologarci tutti nella categoria di consumatori.
La folgorazione mi arrivò nel 2002 con La dismissione di Ermanno Rea (Feltrinelli). Lo smantellamento dello stabilimento siderurgico napoletano tracciato nel libro lo avevo vissuto sulla mia pelle. Come me, la metà dei miei coetanei del quartiere in cui sono nata.
Con fiducia, in cerca di una narrazione che restituisse i sacrifici di chi campa di lavoro manuale, successivamente mi gettai con avidità in un altro romanzo italiano all’epoca abbastanza “celebrato”, nel quale trovai, invece, il ritratto – che ancora non ho digerito – di una progenie operaia priva di identità, sfornita di una coscienza di classe, senza aspirazioni, cotta di droghe e alcool, malata per “il divertimento”. Considerai quel racconto un errore eclatante, irrispettoso più ancora che nei confronti dei protagonisti, nei confronti dei genitori di questi. Se è vero che “la mela non cade mai lontana dall’albero”, a parte le eccezioni che confermano la regola, mi parve inverosimile, dovrei dire addirittura intollerabile, l’ipotesi che un’intera generazione di operai capaci di forgiare l’acciaio avessero così miseramente fallito nel tirare su i figli. Ho dovuto smaltire fino all’ultima goccia di fiele inoculatami da quel testo, aiutata nel cammino di disintossicazione dai molti, ottimi romanzi working class anglosassoni, prima di aprire questo Amianto.
Un saldatore e i suoi polmoni
Renato Prunetti, il papà dell’autore, è stato un saldatore che paradossalmente ha lavorato, per tutta la durata della sua carriera di operaio specializzato, sotto l’ala protettrice del suo peggior nemico. Per svolgere le sue mansioni, infatti, era obbligato a coprirsi con quell’amianto le cui fibre, infilatesi nei polmoni, molti anni più tardi, lo avrebbero condotto al camposanto.
Per fortuna l’epilogo della mia storia, quella che riguarda il mio papà è diverso. Mio padre, entrato all’Ilva di Bagnoli giovanissimo, da operaio specializzato come Renato Prunetti, è qui con noi, gioisce e partecipa ai traguardi dei suoi figli (ammoniti con forza a tenersi lontani dalla fabbrica e tenacemente sostenuti negli studi universitari «con la convinzione ingannevole che mandarli all’università fosse un modo per farli uscire dalla subordinazione di classe») e soprattutto delle sue adorate nipoti, benché la sua salute sia stata profondamente minata dai decenni passati all’ombra degli altoforni, respirando/inalando i fumi e le scorie tossiche dell’acciaieria.
Quando è spuntata, nel secondo capitolo del libro, la parola “metalmeccanico”, ho sussultato. Non ho più messo piede in una fabbrica dalla volta in cui, bambina, andai a ritirare la mia ultima “befana dell’Italsider”. Eppure, quella di metalmeccanico è la categoria che sentirò per sempre mia.
Ricordi coincidenti
Molti dei mei ricordi d’infanzia sono straordinariamente coincidenti con quelli di Alberto Prunetti.
A casa mia, mangiare era un’ideologia. Non tanto il cibo in sé, quanto piuttosto non sprecare mai niente. E per mangiare quello stalinista di san Paolo insegnava che bisognava lavorare. Lavorare sull’onda di riflusso del boom economico. Lavorare per vivere, col rischio che il lavoro, sfamandoti, ti portasse via la vita.
I settanta invece sono stati anni felici, in cui il lavoro non manca e la vita segue i propri rivoli. Anni di alti salari e alta conflittualità, anni bellissimi […] Anni in cui semplici operai come mio padre, aderenti alla Fiom-Cgil, godevano con le loro tutele salariali dei vantaggi derivanti dal fatto che partito e sindacato facevano da rubinetto per il contenimento dell’ira rivoluzionaria.
Ogni volta che vedo un flessibile tagliare un tondino d’acciaio, penso che quello era il suo odore, l’odore del dio vulcano.
La sentenza viene depositata in cancelleria […] Giustizia è fatta? No, non è mai fatta. Giustizia è non morire sul lavoro, è non morire né veder morire i propri colleghi. Senza dover morire “a norma di legge”. È lavorare senza essere sfruttati.
Credo che quanto ho fin qui riportato sia sufficiente a rendere un’idea di cosa troverete nel romanzo.
Grazie
Per un giudizio sulla bravura dell’autore, mi affido con estremo piacere al commento di Valerio Evangelisti, che si assunse il compito della prefazione al testo.
«Dolore, divertimento, pena, riflessione, compartecipazione. Quanti testi moderni riescono a suscitare una tale gamma di sentimenti? Eppure, ho provato tutto ciò leggendo la storia narrata da Alberto Prunetti. Una nuvola di sensazioni altalenati e contrapposte, quali sono uno scrittore vero riesce a condensare».
Aggiungo di mio, solo un ultimo grazie all’autore, che mi ha riconciliato con la letteratura working class italiana.
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