Gordon Lish, che ha usato su di sé le stesse cesoie usate per i suoi autori, ci racconta di piaghe e afflizioni mentali, e degli imprevedibili e orrendi modi in cui si può morire. In libreria una sua raccolta di short stories, “Come scrivere un racconto”. Ogni frase, ogni piccola deviazione sono pensate per rendere al massimo
È il più imprendibile tra gli uomini, gli editor, gli scrittori. Addentrarsi nelle opere di Gordon Lish è un’impresa, ardua e nobile, sicuramente arricchente. La raccolta di short stories Come scrivere un racconto (320 pagine, 20 euro), tradotto da Roberto Serrai, che la sempre ottima casa editrice Racconti Edizioni ha portato nelle nostre librerie, e che contiene inediti selezionati di una delle più controverse personalità del mondo dell’editoria contemporanea, apre un’infinità di vedute, sul lavoro di Lish – famoso per essere stato l’editor di Raymond Carver e per averlo sconvolto a suon di tagli e correzioni, tant’è che in una lettera, Ray, arriva, sfinito, a supplicarlo – e sulla sua personalità.
Quella punta dell’iceberg
In ognuno di questi racconti il centro non è tanto la metodica dello scrivere un racconto, quanto una pluralità di voci e punti di vista, spirali letterarie che sembrano condurre tutte verso lo stesso epicentro, quella punta dell’iceberg tanto agognata e raggiunta da Hemingway.
Ecco, nei racconti di Gordon Lish a me pare di vedere tante sommità che, senza nascondere il loro profilo aguzzo, vanno dritte al punto, sia esso malato, ossessivo o talmente orrido da non trovare nessuno che abbia il fegato per raccontarlo.
Nessuno a parte Lish che, con parsimonia, usando su di sé le stesse cesoie che ha usato anche per i suoi autori, ci racconta di piaghe, afflizioni mentali, degli imprevedibili e orrendi modi in cui può morire un essere umano, di come certe imperfezioni fisiche – il labbro leporino del figlio di un conoscente – siano il cuore invisibile a cui tutti gli invitati alla cena dell’esistenza, pur aggirandolo, tendono.
Nessuna compostezza, nessuna smarginatura
Gordon Lish però non ha paura, Lish capovolge, stravolge, e smaschera le abitudini, anche lui interessato alle vite “minime”, al loro andamento incostante, alle tante incoerenze. Lish è il commensale che ribalta il desco con fine sperimentale, è la figura incaricata di raccontare la verità, per quanto scomoda, deprimente e macilenta possa essere.
È quella personalità di spicco che non ha pietà neppure di sé stessa, esponendosi alle critiche di lettori e autori nel momento in cui sconfessa Joyce, o meglio confessa di non averlo mai letto veramente per mancanza di pazienza, per incompatibilità letteraria. E difatti Lish tronca e stronca a trecentosessanta gradi, e da queste cesure, come un sortilegio, emergono le cose, i fatti, le persone. Nessuna compostezza in Lish e nessuna smarginatura. Ogni frase, ogni piccola deviazione sono pensate per rendere al massimo e incidere là dove la crosta dell’apparenza è più spessa, calcificata da anni di abitudini, comportamentali e letterarie.
In quest’ottica, tentare di afferrare Gordon Lish appare tutto sommato irrilevante, perché Lish rimane il più accettabile dei misteri e perché è la lente di ingrandimento che si posiziona senza condizionamenti sulle cose e le rivela, scegliendo di indossare quel “brutto viso”, finalmente sdoganato, con cui tutti attraversiamo la vita.
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