La Glasgow proletaria degli anni Novanta è il proscenio de “Il giovane Mungo”, secondo romanzo di Douglas Stuart, dopo il deflagrante successo del suo debutto, “Storia di Shuggie Bain”, vincitore del Booker Prize. Il nuovo libro non è una semplice storia d’amore omosessuale fra due ragazzi, né il solito romanzo di formazione. Va ben oltre gli stereotipi delle narrazioni da feuilleton, raccontando una periferia del mondo
Nel novembre 2020, Douglas Stuart si è aggiudicato il Booker Prize con il romanzo di esordio Storia di Shuggie Bain (ne abbiamo scritto qui e qui). Da allora non è rimasto con le mani in mano. Oltre a lavorare sull’adattamento della storia per una serie televisiva della BBC ONE, è ritornato in libreria con Il giovane Mungo (456 pagine, 20,90 euro), tradotto da Carlo Prosperi per Mondadori.
Il coraggio
Prima di raccontare come è andata – naturalmente secondo me – questa seconda prova, vorrei sottolineare l’operosità e soprattutto il coraggio dell’autore scozzese.
Poteva godersi ancora un po’ la notorietà e rimanersene seduto sugli allori. Invece, all’apice della popolarità, si è rimesso in gioco. Il fulcro di questo elogio sta tutto nella parola apice. Lanciarsi dalla sommità della curva del successo è il top dell’azzardo. Ovvio che quanto più siano elevate le attese dei lettori, tanto più grande è il rischio di deluderli.
Indubbiamente, battere il ferro finché è caldo rientra nella legittima strategia delle case editrici. Nondimeno è immaginabile un genuino desiderio dell’autore di veder stampato il prima possibile anche questo secondo manoscritto, cominciato nel 2016 e terminato già prima dell’uscita di Storia di Shuggie Bain. «E’ figlie so’ figlie e sono tutti uguali», ci ricorda Eduardo De Filippo in Filumena Marturano. È lecito presupporre, dunque, che Stuart non si sia affatto sentito in competizione con sé stesso e soprattutto non abbia pensato che lo fossero tra loro i suoi romanzi. Il giovane Mungo è una prova di scrittura completamente autonoma, verso la quale Douglas Stuart si è posto senza l’aspettativa di bissare il successo – imprevisto stando alla tempistica – di Shuggie.
Nicola Sturgeon, la Prima Ministra scozzese, ammiratrice della prima ora di Shuggie Bain – tanto da aver reso omaggio al murales a lui dedicato su un muro di Glasgow – dopo aver letto in anteprima Il giovane Mungo, dichiarò di aver temuto che potesse non essere all’altezza del “fratello maggiore”, e di aver tirato, quindi, un sospiro di sollievo constatando che addirittura lo superava.
Il raptus logorroico
Sebbene in un’ipotetica gara “Stuart contro Stuart”, diversamente da Sturgeon, non scalzerei dal gradino più alto del podio Shuggie in favore di Mungo, comunque giudico in maniera più che positiva anche questa seconda prova.
Ci sono, certo, delle piccole imperfezioni. Nulla di eclatante, per carità. Qui e là ho riscontrato delle disomogeneità e delle ridondanze che causano brevi cedimenti del ritmo della scrittura e deconcentrano inevitabilmente il lettore. In qualche caso, la voce narrante in terza persona mi è parsa soverchiata da troppi dettagli: quasi sopraffatta da un suo stesso raptus logorroico, indulge in digressioni che danneggiano il focus e il pathos della sequenza raccontata. Me ne fornisce un esempio il momento in cui Mungo e la sorella sentono un trambusto proveniente dall’appartamento sottostante, inequivocabile indizio di una violenza domestica in corso. Dal momento in cui i due ragazzi rizzano le orecchie a quello in cui decidono di intervenire, intercorrono circa otto righe – che non sono poche nemmeno nell’economia di un romanzo di quasi cinquecento pagine- dedicate alla partita tra Celtic e Rangers. La sconfitta dei Celtic è la miccia che fa deflagrare la rabbia del marito e, dunque, il riferimento al match calcistico risponde alla sacrosanta esigenza di dar conto delle origini della furia animalesca dell’uomo. Ma, dilatare così tanto la parentesi con dettagli non pertinenti all’azione in corso, smorza la concentrazione del lettore.
Un ragazzo protestante e un ragazzo cattolico
Cavato il dente, passato il dolore. Posso dedicarmi ora ai punti di forza di questo Il giovane Mungo di Douglas Stuart.
Potrei liquidare la trama in poche lapidarie battute: siamo davanti alla storia d’amore tra Mungo Hamilton, adolescente di religione protestante e James Jamieson, di poco più grande, cattolico.
Non mi interessa, tuttavia, solleticare solo l’immaginario passionale di chi mi legge. Aggiungo, pertanto, dettagli a sostegno di una valutazione attribuente al romanzo potenzialità più ambiziose, che non si esauriscono entro il confine del romanzo sentimentale e/o di formazione.
Influente è lo scenario geografico in cui D. Stuart ci porta: i quartieri popolari della Glasgow degli anni Novanta, come a dire lo stato dell’arte dello sfracello delle politiche thatcheriane.
Influente è lo scenario familiare: Mungo, battezzato così in onore del Santo protettore della città, è il terzo dei tre figli di Ma-Mo, madre precoce e sola. Concentrata sul proprio desiderio di affetto e sulla propria infelicità, in una perseveranza a lasciarsi sfiorire accelerata dall’alcool e da relazioni fallimentari, anziché tirare su i suoi ragazzi, ha lasciato che facessero da soli. Il risultato “dell’esperimento pedagogico” è, secondo i paramenti di occhi “borghesi”, disastroso. Un primogenito, anch’egli diventato prematuramente genitore, violento, omofobo, bullo, con inclinazioni a delinquere, capo di una gang. Una secondogenita che si forma più per opposizione al modello materno che per imitazione, dedicando tutta sé stessa sull’istruzione scolastica nella consapevolezza che sia l’unica carta da giocare per mutare il destino. Quanto a Mungo, egli è l’agnello sacrificale. Cresce in adorazione di Ma-Mo, sotto l’ala protettrice della sorella, che lo ha allevato, e nel riflesso della mascolinità bruta del fratello, unico, pessimo esempio di riferimento maschile. Riga dopo riga, pagina dopo pagina, accrescerà la consapevolezza sulla sua identità sessuale e maturerà il progetto per un futuro possibile con James. Più strutturato psicologicamente e maggiormente consapevole delle implicazioni di vivere in quella realtà marginale, quest’ultimo è orfano di madre. La figura nociva è, dunque, nel suo caso il padre. Il ragazzo alleva piccioni e si tiene lontano dal consesso dei coetanei nell’attesa della maggiore età; ha in programma di andare via da casa, o per meglio dire di allontanarsi dal genitore, per poter vivere allo scoperto la sua omosessualità.
Influente è lo scenario sociale: tutti i personaggi sono lumpen, proletari.
Due canali temporali sdoppiati
Non è neutrale nemmeno la struttura narrativa, articolata in due canali temporali sdoppiati, che si incrociano e alternano per mostrarci quanto il modello culturale “di nascita” riaffiori dal livello inconscio a quello conscio e si traduca in azione, in istintiva strategia autoconservativa, paradossalmente, proprio fuori dal contesto di riferimento, dove si vorrebbe fare di sé un’altra narrazione.
Incontriamo Mungo per la prima volta fuori dal suo ambiente ordinario di vita. Siamo nella prima timeline della narrazione.
Sospettandone l’omosessualità, la madre lo ha affidato a due figuri in cui si è imbattuta ad una riunione degli alcolisti anonimi, autorizzandoli a portarlo nelle Highlands per una sessione di campeggio – per così dire – rieducativa. Sarà un’esperienza segnante, che costringerà il ragazzo ad una vera e propria lotta per la sopravvivenza.
Nel secondo flusso cronologico, Mungo è nel suo consueto mondo e ripercorre le tappe, precedenti l’avventura terribile con i due brutti ceffi, attraverso le quali è avvenuto l’avvicinamento a James.
Tali elementi, molti dei quali condivisi con La storia di Shuggie Bain, mi hanno guidato ad una interpretazione del romanzo che travalica il senso letterale della trama, inducendomi ad inserirlo, come accennato, in una cornice teorica molto più vasta rispetto alle – pur rispettabilissime – etichette di love story o “coming of age” (romanzo di formazione).
Non commozione ma comprensione
Il giovane Mungo di Douglas Stuart è, piuttosto, da collocare nella letteratura working class, in quella produzione, cioè, che si concentra sulle vicende di appartenenti alla classe lavoratrice o che sono scritte da autori di tale estrazione. Dunque, prospetta riflessioni più articolate, di valore ideologico più pregnante.
Mungo – l’ho sottolineato ampiamente – è una voce connotata dalla classe socioculturale di appartenenza. Egli elabora e vive, prima che James gli illumini un’altra prospettiva, la propria omosessualità secondo il setaccio ideologico tossico che in suo humus di estrazione gli ha inculcato. Sotto questa lente, la sua vicenda diventa collettiva, l’emblema di un destino, che come tanti altri analoghi, è determinato dal contesto.
Non è contraddittorio con quanto detto osservare che non ci sono, però, intenti di rivendicazioni identitarie. Il talento di Stuart Douglas – che coincide con la tipicità della narrativa working class – sta nel modo in cui orienta il suo sguardo. Non vuole commuovere il lettore. Desidera solo che entri in quello che è stato anche il suo mondo. Desidera che sia compreso. Non c’è ombra di vittimismo o narcisismo ombelicale nel suo giovane protagonista. Per scampare il tranello di una retorica dell’eroe che corroda l’autenticità del soggetto, l’autore fa leva sul conflitto – figurato e reale – ingaggiato da Mango contro gli altri antieroi delle periferie del Regno; prescindendo da paternalismi o demonizzazioni, sporca anche le mani del giovane di sangue. Senza il background working class e senza una penna della medesima provenienza, Mungo e la sua storia d’amore non potrebbero avere la stessa forza, né muovere le corde che sentiamo agitarsi in noi.
La bellezza e, mi permetto di aggiungere, l’importanza de Il giovane Mungo stanno nella possibilità di andare oltre gli stereotipi delle narrazioni da feuilleton che, dal superficiale nel quale si compiacciono di sguazzare, depredano, demonizzano e banalizzano le realtà difficili delle periferie del mondo per costruire trame leggere e inutili, ripiegate in logiche di sconfitta e emarginazione.
Sarà un caso che, arrivati alla conclusione del libro di Douglas Stuart, riaffiorano alla memoria “i versi” di Faber:
Se tu penserai e giudicherai
Da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni
Più le spese
Ma se capirai se li cercherai
Fino in fondo
Se non sono gigli son pur sempre figli
Vittime di questo mondo
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