Ponthus, la fabbrica inghiotte la vita (anche nel terzo millennio)

Una scrittura che è un continuum ininterrotto di pensieri, e si compone in versi, senza punteggiatura, un anonimo lavoratore interinale dell’ingranaggio industriale. E poi la fatica fisica, le notti di lavoro intenso, la delicata e tormentata storia d’amore con la moglie. C’è tutto questo in un volume fortissimo, “Alla linea” di Joseph Ponthus

Scrivo come lavoro
Alla catena
Alla linea e sulla linea a capo

La catena, che è la catena di montaggio, l’ingranaggio della fabbrica in cui ciascun lavoratore è un pezzo, anonimo, scambiabile, ma anche la catena degli schiavi, “la catena/ la schiavitù moderna”. Joseph Ponthus, pseudonimo di Baptiste Cornet, scomparso nel 2021, a soli 43 anni, scrive un libro fortissimo – Alla linea (256 pagine, 17 euro), tradotto per Bompiani da Ileana Zagaglia – in cui un lavoratore interinale, appunto un pezzo anonimo dell’ingranaggio industriale, racconta la sua esperienza di lavoro, prima in una fabbrica di pesce surgelato, poi in un mattatoio. Scrive, appunto, come lavora, alla linea, e a capo, e sul foglio la scrittura si compone in versi, in un continuum ininterrotto come i pensieri del protagonista, ma anche come la sua vita, fatta di giorni che scorrono uno dopo l’altro, scanditi dagli orari della fabbrica, dal lavoro notturno, dalle pause di pochi minuti, riempite da un caffè, una sigaretta e qualche parola scambiata con i compagni. La fabbrica che inghiotte la vita, annienta il corpo, per la fatica fisica, la fabbrica che esiste ancora, nel terzo millennio, nell’era dei social e dell’automazione, ed è fatta di braccia e stanchezza, di capi che controllano e pretendono risultati. Ponthus ci ricorda che c’è ancora il lavoro alla catena, perfino dietro le confezioni di aragoste, gamberetti e polpa di granchio che usiamo per i cenoni di Natale.

Fra citazioni e la musica, come resistenza

Non c’è punteggiatura, nel testo, la varietà del ritmo è segnata dalla differente lunghezza dei versi e dagli spazi bianchi. E così si alternano i passi affannati delle notti di lavoro intenso, le parti in cui la narrazione si distende nel racconto dei sentimenti del protagonista, la delicatissima storia d’amore tra lui e la moglie, fatta di orari che non si incrociano, di fine settimana troppo brevi, di biglietti lasciati in vista o pietanze nel frigo, i versi in cui echeggiano le parole di molti altri autori, o i testi delle canzoni. La rete dei rimandi e delle citazioni è infatti fittissima, la scrittura di Ponthus è consapevole, ricercata, senza compiacimenti, intreccia Apollinaire a Char, Beckett a Hugo, a Proust («Il tempo perduto/ Caro Marcel ho trovato quello di cui andavi alla ricerca/ Vieni in fabbrica te lo mostro subito/ Il tempo perduto/ Non avrai più bisogno di farla tanto lunga») e tanto altro ancora.

Ricchissimo il sottotesto musicale: su tutti, Charles Trenet, con la dedica iniziale, «senza le cui canzoni non avrei resistito», e poi Brel, Vanessa Paradis, Carla Bruni, e ancora Brassens, Léo Ferré. Perché in qualche modo si deve resistere, nelle ore di lavoro in fabbrica, e un modo è cantare, cantare, ripetere nella mente i versi e le strofe. La musica dunque non come conforto, ma come arma, di una resistenza che alterna la speranza e la disillusione («C’è che bisogna metterlo questo punto finale/ Alla linea; C’è che non ci sarà mai / Un Punto finale/ Alla linea»).

La terribile routine diventa letteratura

Una ricchezza di stile e una profondità di tono che è perfettamente coerente con il protagonista e voce narrante, che prima di essere un operaio è stato operatore sociale, un educatore. Il matrimonio lo ha portato a cambiare città e la necessità di uno stipendio a rivolgersi ad un’agenzia di lavoro interinale. Ha lo sguardo attrezzato a leggere la realtà in cui vive, e abbastanza parole per trasformare la terribile routine quotidiana in letteratura, passando per la metafora. Nel macello, ad esempio, tutto diventa un’immagine della società, le bestie uccise e poi appese e trasportate, il sangue lavato accuratamente. «Spingiamo le nostre carcasse/ Tutti in fin dei conti non fanno altro che trascinare le proprie carcasse».

La scrittura denuncia, resiste, «Alla scuola della poesia/ Non s’impara/ Si lotta», scrive Ponthus citando Léo Ferré, ma la scrittura è anche dono, è sempre amore, così le ultime pagine si rivolgono direttamente alla moglie, parafrasano una poesia di Apollinaire, scritta in mezzo all’orrore della guerra, che all’autore risuona nella battaglia quotidiana della vita, della fabbrica, e nella durezza dei giorni, inscalfibile come un diamante, gli offre un verso: «C’è l’amore che mi trascina con dolcezza».

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