Arthur Galleij ventiduenne che ha scontato ventisei mesi di reclusione, trova rifugio temporaneo in una comunità: non ha una famiglia da cui tornare e senza un lavoro, non può permettersi un’abitazione indipendente. È il protagonista di “Fuori”, primo romanzo dell’austriaca Birgit Birnbacher edito in Italia, tradotto da Emilia De Paola e pubblicato da Mar dei Sargassi. Con umorismo, empatia e nessun giudizio, in “Fuori” una sottile critica sociale incontra una delicata storia di vita e lo stigma di un fine pena mai a cui la società condanna chi sbaglia. Pubblichiamo la prefazione di Sara Benedetti, autrice di “Sulla cattiva strada” per Nottetempo (ne abbiamo scritto qui)
Non dirò che dobbiate farlo perché può capitare a chiunque, anche a voi, di finire in galera. Al contrario, è probabile che non vi capiti affatto, che ve la caviate. Tuttavia, anche se non andrete dentro, c’entrate. C’entriamo tutti.
Così, chiedendoci di leggere quanto ha scritto, Adriano Sofri chiude le righe che accompagnano Le prigioni degli altri, opera che procede per frammenti, sorta di diario tenuto durante la carcerazione nell’estate del 1988.
Il romanzo di Birgit Birnbacher sembra nascere dalla volontà di trasformare questa riflessione in materia narrativa. Il carcere è questione di tutte e tutti, è argomento di cui dovremmo occuparci assiduamente con l’esercizio del pensiero individuale e con il confronto democratico. Invece, risulta essere, insieme alle case di riposo e ai cimiteri, uno dei luoghi rimossi del nostro tempo, rimossi perché ospitano ciò che non si vuole vedere, ciò con cui è difficile misurarsi: l’errore, la vecchiaia, la morte.
Tuttavia, il carcere ci riguarda almeno in due sensi. Come una società decide di perseguire quanti hanno contravvenuto alle sue regole è misura della civiltà che ha raggiunto, come il culto dei morti e la sepoltura segnano un discrimine tra un prima e un dopo nella storia dell’umanità. Esistono delle regole che proteggono la società e i suoi membri ed esistono delle conseguenze per chi non le segue. Questa è una certezza del diritto. Ma privare una persona della libertà non vuol dire poterne offendere la dignità o abbandonarla alla violenza in una sorta di autoregolazione della vita del carcere o, ancora, lederne la salute fisica e mentale. Su questo dovremmo vigilare, questo è segno del reale grado di sviluppo di un paese al di là di infrastrutture e telecomunicazioni.
Sempre Sofri scrive: […] occorre ammettere senza riserve che il carcere sia accettabile solo quando serve a impedire la libertà a persone che hanno commesso delitti gravi e minacciano di commetterne ancora, mentre troppo spesso il carcere sembra ricoprire le seguenti funzioni: ospizio per i senzatetto; nursery per le madri singole; comunità terapeutica per intossicati; luogo di assistenza medica per i poveri; scuola di avviamento professionale per gli evasori dell’obbligo… un ospedale generale contemporaneo, come scrive Ruggiero da lui citato. E così il carcere, per le tante funzioni che sembra dover assumere, diventa segno evidente di una società che si è arresa, che non è in grado di garantire opportunità ai suoi membri svantaggiati, che nulla può per contrastare le derive del capitalismo e l’allargamento della forbice sociale.
Quando quest’anno sarà finito, fuori soffierà un vento gelido per coloro che non hanno nulla da esibire sul grande libero mercato, scrive Birgit Birnbacher del suo protagonista, Arthur.
Ed ecco che arriviamo al secondo aspetto per cui una riflessione sul carcere è urgente e importante anche per chi non è coinvolto in prima persona. Se il carcere fallisce la sua funzione, se diventa luogo di violenza e sopraffazione e scuola di criminalità, allora le detenute e i detenuti arrivate/i a fine pena, che il sistema vomita fuori dalle mura contenitive del carcere, sono persone più offese, più arrabbiate, più emarginate di quanto non fossero prima di entrare. Sembra non esserci spazio per loro e i tassi di recidiva sono alti, troppo.
E non si può ragionare solo in termini di numeri o statistiche, lasciando l’essere umano fuori dall’equazione. Anche in questo risiede il grande valore del romanzo: nella prosa della Birnbacher la disperazione, la violenza subita, l’impotenza, il senso di esclusione, si fanno personali, sono ritagliati su un protagonista rispetto al quale è impossibile rimanere distanti. Arthur è un uomo spigoloso, né piccolo né grande, diciamo, un piccolo guardaroba, un armadietto con le ante chiuse.
Il carcere è un’istituzione totale. A chi vi entra, non rimane nulla del mondo se non brevi lampi: le lettere, qualche telefonata, i colloqui. Fuori è per Arthur il luogo fisico di ciò che c’è stato prima, quindi il luogo dei ricordi, del passato, ed è anche il limbo che lo accoglie quando finisce di scontare la sua pena. Fuori è qualcosa che tutti i detenuti sognano, è ciò che si invidia al compagno di cella liberante. Ma fuori fa anche paura perché chi è lì – non importa quale sia il reato o la durata della pena – porta uno stigma difficile da cancellare. Sei un ex detenuto e la tua storia non conta più, viene ingoiata da quel posto in cui hai perso giorni, affetti, ciò che di buono avevi e che poteva ancora salvarti. La Birnbacher, invece, con la sua scrittura incisiva, recupera l’individualità di Arthur, il suo prima, il suo dopo, narrandone i nodi, gli strani incontri: i genitori, il fratello, una ragazza, Milla, e un ragazzo, Princeton, Grazetta, ex stella del teatro e suo bizzarro nume tutelare, Lennox, Bettina Bergner e Börd, tra i pochi a sapere che ci può essere il bene nel male, così come magari c’è il male nel bene.
Il talento dell’autrice si esprime anche nella capacità di descrivere l’ambiente in cui i personaggi vivono, si muovono, sbagliano e tentano ancora. I luoghi non sono cornice che ospita ma si fanno parte del racconto e del tema. La contrapposizione tra “le occupazioni quadruple” del romanzo, gli spazi del carcere sovraf- follati (problema comune a più paesi e drammaticamente legato al numero di morti) e i quartieri residenziali abilmente progettati, circondati da spazi verdi e pieni di arredamento ancora incellophanato, vuoti ora e per sempre, è una perfetta rappresentazione dei contrasti di una società impazzita che non sa redistribuire le proprie risorse e possibilità e lascia a singoli esseri umani di rara empatia il compito di trarre in salvo gli altri, quelli che incrociano, quelli che possono. E lì, sembra indicarci la Birnbacher, in quegli attimi di luce, c’è la risposta alla lotta quotidiana di chi tenta ancora di avere un’occasione.