Le camelie di Marcel Proust, un omaggio

A un secolo dalla morte di Marcel Proust e dalla pubblicazione di “Sodoma e Gomorra”, un ritratto omaggio di uno dei maggiori scrittori di sempre, per acume psicologico e conoscenze storiche, musicali, teatrali, pittoriche, architettoniche. Per Cristina Campo era “un miracolo archeologico, una resurrezione dei morti”. Oggi è oscurato dalla divulgazione di massa, ma restano le sue pagine di spessore simbolico, densità concettuale, quantità e qualità a profusione

Hommage à M. P. Si intitolava così il fascicolo della Nouvelle Revue Française dedicato a Proust nel gennaio 1923, nel quale il direttore Jacques Rivière, amico di Marcel, preconizzava l’importanza capitale che avrebbero avuto in futuro le sue scoperte nel campo dell’animo umano, assimilabili a quelle di Keplero, Claude Bernard e Auguste Comte. In effetti, l’interesse scientifico era un tratto di famiglia, visto che il padre e il fratello erano medici. Il genitore, Adrien, figlio di speziali del paesino di Illiers (diventato Illiers-Combray nel centenario della nascita di Proust, in onore del nome attribuitogli nella Recherche), grazie all’esperienza di una missione in Russia e Persia per studiare il colera, nel 1873 aveva scritto La Défense de l’Europe contre le choléra e in seguito ricevuto la nomina a professore universitario.
Se tutta l’opera proustiana trabocca di conoscenze storiche, musicali, teatrali, pittoriche, architettoniche, il lettore è colpito al cuore dalle pagine di straordinario acume psicologico, preziose come rilievi a sbalzo o gioielli incastonati nella trama, riflessioni su emozioni e vissuti più precise di tanti trattati ed espresse con un vocabolario che le rende di immediata e comprensibile evidenza. Una singolare capacità analitica specialmente per ciò che concerne le passioni, più meccaniche di quanto ci piaccia credere, perché gli ingranaggi del desiderio amoroso rendono tutto e tutti semplici strumenti da utilizzare oppure nient’altro che fantasmi.

Sociologo e antropologo sui generis

In fondo Marcel era un sociologo e un antropologo sui generis, dedito all’osservazione meticolosa di ambienti aristocratici, borghesi e operai, cogliendo ovunque spunti e materiali per l’unica vera ragione di vita, la scrittura. L’elenco di personalità e artisti con cui ha avuto contatti è da capogiro, da Henri Bergson (cugino acquisito), che ha influenzato la sua concezione del tempo e della memoria, a Debussy, da Picasso a Joyce, passando per Gide e Wilde. Quest’ultimo, che l’aveva conosciuto nel 1891 e rivisto nel 1894, non mancando di criticare l’arredamento dell’abitazione in boulevard des Malesherbes al n. 9, compare in maniera camuffata in Sodoma e Gomorra e sarebbe, secondo George Painter biografo di Proust, uno dei modelli del signor di Charlus. Non va dimenticato che è Anatole France a firmare la prefazione del suo debutto letterario nel giugno 1896, I piaceri e i giorni (eco di Esiodo), un’edizione di lusso invenduta e con pochissime recensioni, un totale insuccesso. E val la pena di ricordare che il suo stile risente della frequentazione di pittori e musicisti. A parte la predilezione per Monet, un aneddoto lo descrive barcollante in preda alle vertigini rivedendo Veduta di Delft di Jan Vermeer alla mostra dei pittori olandesi all’Orangerie nel 1921, quasi un ventennio dopo averla contemplata a L’Aia definendolo “il quadro più bello del mondo”. Se adorava Beethoven, teneva al tal punto all’esclusiva nell’ascolto da organizzare a casa sua concerti di compositori contemporanei.

Conversazioni e… asma

Amabile e colto conversatore nei salotti mondani (tra i quali quelli di Madame Straus e della contessa di Noailles), di cui faceva la cronaca su Le Figaro meritandosi la nomea di frivolo, nei questionari auto-compilati, allora di moda, dichiarava che la sua principale caratteristica era il bisogno di essere amato, il maggior difetto la mancanza di volontà, l’occupazione preferita amare. Più avanti, in una missiva privata del 1901 si diceva sempre malato, privo di piaceri, senza attività e ambizione, con una vita finita dinanzi a sé e conscio della pena che arrecava ai genitori. Di fatto studi e lavoro erano stati condizionati dall’asma, al liceo Condorcet aveva dovuto ripetere la seconda classe, ottenuta la licence in Giurisprudenza e in Lettere era entrato alla Biblioteca Mazarine dovendo però alla lunga congedarsi per le continue assenze. Quando diciottenne si era arruolato volontario nel reggimento di fanteria di stanza a Orléans, con l’intento di evitare i tre anni di leva, aveva dormito in città e non in camerata per via delle crisi respiratorie, motivo altresì dell’esonero dal fronte allo scoppio della Grande Guerra. È per il libretto di servizio militare che ne conosciamo l’altezza, 1 metro e 68, benché Céleste Albaret, l’ultima governante e segretaria, propendesse per 1,72. Molto attuale è quanto Marcel scrive nel novembre 1918 dopo l’armistizio: “A tutte le paci preferisco quelle che non lasciano rancore nel cuore di nessuno”.
Il male si era palesato da fanciullo tornando da una gita al Bois de Boulogne, ma la salute cagionevole lo accompagnava fin dalla nascita, avvenuta il 10 luglio 1871 ad Auteuil, piccolo sobborgo parigino, in rue La Fontaine al n. 96, in casa dello zio materno presso cui i genitori si erano trasferiti per la pericolosa situazione parigina, l’insurrezione popolare (la Comune) e la successiva repressione. La madre infatti attribuiva la debole complessione del figlio alle ansie e privazioni patite nella capitale durante la gravidanza. È da lei, Jeanne Weil, discendente da due agiate e raffinate famiglie ebree, che aveva ereditato il lato più culturale e artistico. Per esempio, insieme avevano visitato Venezia e Padova (Cappella degli Scrovegni) nell’aprile del 1900; dalla firma lasciata nel registro del Monastero degli Armeni sull’isola di San Lazzaro sappiamo che era tornato in laguna in ottobre.

La morte della madre

La perdita di Maman nel settembre 1905, all’età di cinquantasette anni a causa di una nefrite, segna una svolta decisiva per Proust, che prima sprofonda come un bambino in una cupa depressione e poi torna a galla “adulto”, deciso a raggiungere la meta senza più risparmiare energie. In Sodoma e Gomorra descrive appunto il momento di passaggio dalla giovinezza alla maturità, evocando la malinconia che prende «quando si smette di obbedire a degli ordini che, giorno per giorno, ci nascondono l’avvenire», finché ci si rende conto che “abbiamo cominciato a vivere sul serio, come persone adulte, la vita, la sola vita che sia a disposizione di ciascuno di noi” (Parte seconda, Capitolo secondo). Sicché, a pochi mesi dal decesso della mamma si ricovera per sei settimane in una clinica, come le aveva promesso, per curare asma, insonnia, esaurimento nervoso. All’uscita, definendosi “incredibilmente malato”, rientra al domicilio per non muoversi in pratica dal letto per mesi, quindi si trasferisce in un Hotel settecentesco a Versailles e infine affitta l’appartamento di uno zio in boulevard Haussmann al n. 102, nonostante la vicinanza di alberi, la polvere e il rumore (che lo spinge a far insonorizzare la camera con sughero), perché vi associa il ricordo materno. Dal ripiegamento luttuoso, ritmato dagli attacchi asmatici e dalla lettura di Emily Brontë, Thomas Hardy e Alexandre Dumas, riemerge nel 1907 riprendendo a scrivere con determinazione per non smettere più, giungendo in certi momenti a usare la penna per più di sessanta ore di seguito. Il fil rouge della creazione diviene la memoria involontaria, che consente di recuperare e restaurare impressioni o verità archiviate nella mente, metodo immortalato nel notissimo episodio della madeleine.

La fama

È nel 1909 che Proust mette a punto il progetto generale della Recherche, che impiegherà più di undici anni per realizzare. Poiché parecchi editori rifiutano il primo tomo, Dalla parte di Swann, nel 1913 decide di proporlo a proprie spese a Grasset, il quale accetta imponendo drastici tagli. Anche Gide, cui aveva affidato il manoscritto, l’aveva scartato per Gallimard, forse senza leggerlo davvero, giudicando la scrittura “superficiale, fiorita e analitica”, per poi riconoscere l’errore nel 1916 e proporgli la pubblicazione e la rescissione del precedente contratto. 
La fama in patria e all’estero inizia con l’assegnazione del Premio Goncourt nell’ottobre 1919 per All’ombra delle fanciulle in fiore (decisivo il voto dell’amico Léon Daudet, figlio del celebre Alphonse). Nell’autunno del 1920 I Guermantes I, le cui bozze erano state corrette da un giovane e sconosciuto André Breton, riceve moltissime recensioni positive consacrandone il prestigio, avvalorato dal conferimento della Legion d’onore (nel medesimo giorno di Colette).
Nella primavera del 1921 escono in unico volume I Guermantes II e Sodoma e Gomorra I, senza sua revisione per i già cospicui ritardi, quindi nel 1922 si pubblica Sodoma e Gomorra II. L’intenzione iniziale di Proust era di chiamare Sodoma III e Sodoma IV pure i capitoli successivi, che invece diverranno post mortem rispettivamente La prigioniera, uscito nel 1923, e La fuggitiva, nel 1925, mentre il romanzo conclusivo del ciclo, Il tempo ritrovato, vedrà la luce solo nel 1927.

Il tema dell’omosessualità

Sorprendente per l’epoca è la scelta di dare gran risalto alla tematica dell’omosessualità, offrendo descrizioni fisiognomiche, psicologiche e comportamentali curate in ogni dettaglio, che sono tuttora una galleria di ritratti indimenticabili e al contempo casistica utile alla comprensione del fenomeno. Proust muove dalla botanica per spiegare l’origine dei sodomiti, confidenzialmente “La race des tantes” (le zie prese in prestito da Balzac), cercando di alleggerire il carico di riprovazione e scabrosità rappresentando l’amore “sterile” come un dato di fatto, buono e cattivo quanto tutto il resto, costituzionale o congenito. Inoltre, fa un parallelo con la condizione degli ebrei, sostenendo che i discendenti di Sodoma siano forzati alla mistificazione dalla maledizione secolare, avendo ereditato la menzogna che ha permesso ai loro antenati di abbandonare la città maledetta prendendo le distanze dai costumi incriminati, il che spiega perché mettano all’indice la sodomia e siano i primi a porre il veto in certi ambienti all’ingresso dei consimili. Sceglie perciò l’epigrafe da un poema di Alfred de Vigny (1797-1863), composto sull’onda dell’amarezza per esser stato lasciato dall’amante, l’attrice Marie Dorval, per giunta per una donna, George Sand: “La femme aura Gomorrhe et l’homme aura Sodome”.
Difatti, più che scandalo sociale, il testo provoca irritazione tra coloro che si riconoscono nei personaggi omosessuali, a cominciare dall’amico conte Robert de Montesquiou e dal barone di Doasan. Pure Gide protesta per i tratti grotteschi attribuiti a Charlus e ai suoi rapporti sessuali, però Proust commenta con Jacques Boulanger: “Sapete, col mio ultimo capitolo ho fatto arrabbiare molti omosessuali, e la cosa mi fa molto dispiacere. Ma non è colpa mia se il barone di Charlus è un vecchio signore, non gli potevo dare tutt’a un tratto l’aspetto di un pastorello siciliano come quelli che compaiono nelle stampe di Taormina”.

La fine

Posta la parola fine alla Recheche nella primavera del 1922, per Marcel conta meno sopravvivere, la mano rallenta e la malattia avanza, si procura seri danni usando troppa adrenalina e trascorre ancora le notti a revisionare Albertine disparue, disattendendo i consigli del medico. In autunno una bronchite degenera in polmonite per le ore passate al gelo nella hall di un Hotel nella vana attesa di un suo ex-domestico e segretario tornato a Parigi. Il 17 novembre sopraggiunge la setticemia, con conseguente delirio e coma, si spegne nel pomeriggio del 18 mormorando “Mamma”. Léon Daudet accorso in rue Hamelin al n. 44 dice al fratello: “Ci ha anticipati tutti di oltre un secolo. Dopo di lui non si può fare più niente”. E Cocteau annoterà che sul camino i manoscritti continuavano a vivere come l’orologio batte al polso di un soldato morto. I funerali si svolgono il 22 novembre nella Chiesa di Saint-Pierre de Chaillot, con onori militari e l’esecuzione di Pavane pour une infante défunte di Ravel, infine viene sepolto al Père-Lachaise accanto ai genitori.
In Jean Santeuil (1901) aveva confessato: “Scrivere un romanzo o viverne uno, non è affatto la stessa cosa, checché se ne dica. E tuttavia la nostra vita non è separata dalle nostre opere”. E in Contro Sainte-Beuve (1909) ribadiva che l’autobiografismo è un falso ideologico nella comprensione di un artista: “Un libro è un prodotto di un altro io rispetto a quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, in società, nei nostri vizi”. Perché le circostanze, i luoghi, le persone, sono tutte particelle di realtà lavorate sino alla sublimazione in favola o mito, da oggetti dell’esperienza a oggetti estetici, occasioni per generare parole dotate di poteri magici, catartiche e visionarie, battezzate nella bellezza e predestinate alla resurrezione. La sua sorte infatti sin da ragazzo è stata evocare entità ed esseri immaginari che gli consentissero di attingere a una dimensione irreale, pur presto dileguata, figure evanescenti che si avvicendavano in una circolarità che riportava all’origine, testimonianze dell’eterno ritorno. Non a caso Cristina Campo ha definito Proust “un miracolo archeologico, una resurrezione dei morti”.

Un dinosauro della narrativa? No

Ora che per i più è solamente un nome, pronunciato di rado, una sorta di dinosauro della narrativa coperto dal cemento della divulgazione di massa, pare impossibile che si desse tanta pena per riempire migliaia di pagine di spessore simbolico, densità concettuale, quantità e qualità a profusione, chiedendo all’umanità a venire attenzione estrema, concentrazione devozionale, anni da dedicare alla lettura.
Così fa piacere ricordarlo pensando al celebre quadro dipinto nel luglio 1892 da Jacques-Émile Blanche, in posa con la camelia all’occhiello, un fiore inodore adatto a un asmatico. Un’immagine perfettamente rispondente alla descrizione fatta da Lucien Daudet, figlio minore di Alphonse, al loro primo incontro: “Un giovane di un pallore lunare, capelli nerissimi e baffi altrettanto, una testa un po’ grossa, inclinata su spalle alquanto strette, occhi grandi che sembravano scrutare ogni cosa senza fissarsi su nulla”.

Au revoir, Monsieur aux camélias. 

“Così, dopo l’incendio di tutte le biblioteche del globo e l’ascesa di una razza del tutto ignorante, un vecchio latinista avrebbe ripreso piede e fiducia nella vita sentendo una persona citargli un verso di Orazio” (Sodoma e Gomorra, Parte seconda, Capitolo terzo)

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