Un romanzo sontuoso, da leggere assolutamente, “Una minima infelicità” di Carmen Verde, in cui voci, pause e ritmi della narrazione sono organizzati meticolosamente. Il suo stile fa esplodere il testo di emozioni, una trama minuta in seno a una famiglia, fra episodi, sottintesi, cronache di fatti specifici, comportamenti, stati d’animo
Da tempo non ero preda di un impeto tanto famelico quanto quello che mi ha costretto a passare due notti consecutive sul romanzo di Carmen Verde, Una minima infelicità (136 pagine, 17 euro), Neri Pozza. Ed era altresì parecchio che non mi capitava di mettermi a scrivere sull’onda dell’urgenza, rispondendo ad un impulso di pancia e non di testa.
Sarò breve e perentoria.
Carmen Verde con questo suo sontuoso romanzo mi ha regalato – e spero regali anche a chi, seguendo questo mio suggerimento, decida di leggerlo – una felicità massima. Una felicità intensa, corposa. La felicità generata dalla passione per la scrittura che, dalle pagine nelle quali è stata trasfusa dall’autrice con amore e dedizione tangibili, passa al lettore.
Rigore, chiarezza, classe
Colpiscono, anzi di più, impressionano, naturalmente in senso positivo, il rigore – inteso come meticolosità e accuratezza non già come rigidità – la chiarezza e la classe con cui Carmen Verde si è espressa. Il suo stile fa esplodere il testo di emozioni. Il suo accento crea con abilità spazi di rarefazione in cui, grazie ad un immaginario pulsante, si alimentano l’empatia e la curiosità di chi legge.
Il titolo rassicura che la materia prima – delicatissima – su cui l’autrice lavora è minima. Se pure fosse, è tuttavia risaputo che, in ogni cosa a fare la differenza sia la qualità, più che la quantità.
Un’infelicità matrilineare
Pochi gli elementi e gli attori in scena, ma tutti pregiatissimi. La nonna Anna, suicida. La madre Sofia Vivier, smaniosa di esperienze frizzanti – come vagamente evocato dal cognome. Il padre, Antonio, che nell’economia familiare gioca il ruolo del fotografo perennemente al di là dell’obiettivo. La domestica Clara, villain della storia, che, repentina folata di vento raggelante, obbliga il lettore a costituirsi parte, a detestarla. Infine, Annetta, la figlia, protagonista e voce narrante, confinata nel fisico di una bambina di una decina d’anni anche dopo l’età dello sviluppo, che è un satellitino orbitante intorno alla stella – ma sarebbe meglio dire alla luna, data la spiccata attitudine all’umbratilità – di mamma Vivier.
La trama, tagliata a misura della protagonista, è anch’essa minuta. Coincide con il racconto di una infelicità matrilineare, che si tramanda, cioè, con metodo dalla nonna alla madre e infine alla nipote. È ragionamento su quella infelicità, che procede per episodi, sottintesi, cronache di fatti specifici, comportamenti, stati d’animo, descrizioni di immagini fotografiche.
Una melodia che riverbera persistentemente
Eppure, si rimane ammirati dinanzi all’estro di Verde, che ha fatto letteralmente miracoli con questo minimo, sia sul piano teorico che formale.
Sul piano teorico, mi è parso che Verde proponga una costruzione prospettica molto originale dell’infelicità di Annetta. Ribaltando i piani dell’azione, la ragazza decide, anziché lasciarsene abitare, di abitare lei per prima gli spazi dell’infelicità, parziale eredità materna. Sopravvissuta al resto dei parenti, infatti, si ritira a vivere, verso l’epilogo del romanzo, unicamente in un paio di stanze dell’abitazione di famiglia. Si trasferisce metaforicamente, cioè, nella camera principale di una casa che – come ci dice l’autrice – custodisce «un’esperienza della vita e della morte ben più antica» di tutte le generazioni che vi sono passate: la stanza dell’infelicità.
Sul piano formale, ribadisco le lodi. Carmen Verde ha sviluppato il registro sobrio della vita di Annetta in una sonata superba. Voci, pause e ritmi della narrazione sono organizzati così meticolosamente che la melodia eseguita, eloquente e poetica, si insinua nell’animo per riverberarvi persistentemente.
Un romanzo che resta. Da leggere assolutamente.
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