Vonnegut 100. L’ironia ultima risorsa dell’umanità

Nel centesimo compleanno di Vonnegut, occorre ricordare che coloro che riescono a farti sorridere di più sono proprio quelli che meno hanno avuto la possibilità di farlo, specie quando un bombardamento li ha segnati. Bizzarri miliardari sono protagonisti de “Le sirene di Titano”, romanzo filosofico in cui l’essere umano deve diventare speranza esso stesso…

Capita rare volte di imbattersi in pagine talmente strategiche – nello stile, nell’efficacia della comunicazione, nella profondità dei contenuti e nell’umorismo della forma – da apparire così superficialmente semplici, addirittura risibili; come di chi, si penserebbe, non avendo da scrivere cose serie l’ha buttata tutta lì, sul gioco, sullo scherzo.

Sullo scherno!

È il caso di Kurt Vonnegut, forse ancora troppo poco conosciuto, i cui libri hanno fornito ai lettori più attenti non pochi problemi di catalogazione: se la lettura superficiale lo relega allo humor di una penna facile (come se far ridere fosse già cosa da nulla…), la lettura troppo impegnata ne fa già una troppo seriosa satira, di quelle che – si sa – scelgono l’ironia per poter dire tutto.

Almeno per sperare

A mio avviso, invece, un autore come Vonnegut non ha alcun bisogno di dover necessariamente ricorrere alla risata per dire cose di una certa autorevolezza, cose di un certo peso: per lui, il sorriso e la battuta non sono affatto l’appiglio ultimo di un satirico disperato, che fa di tutto per farsi ascoltare, ma – piuttosto – una scelta stilistica che, mi pare, altro non fa se non riflettere semplicemente (come una rarefattissima atmosfera) una chiara e nitida personalità.

Ora, certe personalità hanno bisogno della risata a tutti i costi per riuscire ad emergere dal lugubre torpore della loro anima disperata; altre, invece, ridono per natura di ciò che potrebbe far disperare, come la guerra, la stupidità umana, la strumentalizzazione del naturale bisogno di trascendenza che hanno gli uomini. Ne ridono non perché ritengano queste cose poco importanti – tutt’altro! – ma perché, semplicemente, se dinanzi a queste cose si continua ad essere vivi e dunque capaci di mettersi reciprocamente in guardia dai pericoli che comportano, ciò è già certamente una buona ragione, se non per essere allegri, almeno per sperare. E la speranza è il numero atomico della felicità.

La scrittura di Vonnegut, e il suo umorismo, che oggi incontriamo ne Le sirene di Titano (224 pagine, 13 euro), tradotto da Vincenzo Mantovani per Bompiani, è un’espressione di speranza lì dove, se fosse solo satira, sarebbe un vaneggiamento di disperazione; se fosse solo risata, sarebbe uno scherzo da cinici o da stupidi. E invece, nella più squisita natura del tragicomico, questo romanzo riesce a denunciare senza irridere, quasi facendosi ingranaggio di un’ironia più grande che, in ultima istanza, viene qui presentata come l’ultima vera risorsa del genere umano.

Improbabilità uguale verosimiglianza

Il contesto e la maniera, che ricordano molto il nostro Benni (ma non si giunga a conclusioni affrettate!), e che dunque si è spinti quasi per istinto a considerare con naturale familiarità, sono quelli di un fantascientifico distopico in cui folleggiano strampalate teorie quantiche, incarnate da altrettanto improbabili personaggi. E si comprende subito, a partire dall’incipit meraviglioso del romanzo (studiato ad arte per creare aspettative di genere che l’autore non tarderà molto a disilludere), che la cifra narrativo-matematica di Vonnegut risponde ad una tanto precisa quanto infallibile equazione: improbabilità = verosimiglianza; certe figure e certe situazioni, di per sé talmente irreali da apparire, appunto, lontanissime dal nostro universo morale newtoniano, realizzano invece la proporzione di un’attualità imbarazzante così che, dal più astruso dei personaggi, quello che non potresti mai vedere tutti i giorni perché, semplicemente, non potrebbe mai esistere, ecco venir fuori l’anima stessa di qualcosa che, pure invisibile come l’ossigeno, pregna la più ordinaria quotidianità di noi che siamo dall’altra parte della pagina.

Al contrario, quanto più Vonnegut ci descrive qualcosa di verosimile, di vicino al nostro vissuto sensibile, tanto più ciò sarà distante dal suo piano simbolico portante, quello della probabilità dell’esistenza umana.

Tutto ciò, qui esposto attraverso un’equazione, e sulle sue pagine attraverso una continua processione di situazioni divertenti e drammatiche (senza necessaria alternanza), traduce il giudizio severo dell’autore: siamo fatti di cose che non esistono, mentre ciò che crediamo non esista risponde, invece, alla domanda più vera che l’uomo possa rivolgere a sé stesso: quella sul Senso.

L’altra faccia di Heidegger

Vonnegut, potremmo dire, è l’altra faccia di Heidegger: dove il filosofo asseriva con monolitica ricercatezza sistematica che l’uomo non avrebbe mai potuto eludere la Domanda fondamentale, Vonnegut prova il teorema attraverso una narrazione che, proprio come un’astronave in panne, gira vorticosamente attorno all’asse di equilibrio di un Perché che esige d’essere sciolto; anzi, di un Perché che, semplicemente, esige d’essere.

Un romanzo filosofico, dunque? Con tutte queste celie buttate qua e là? E perché no? Esiste forse un filosofo che non abbia ricorso all’ironia, o che non sia stato esso stesso ironico? O ancora, e più radicalmente: potrebbe la Filosofia sussistere senza l’ironia? Non è forse l’imbarazzante scarto tra possibilità e realtà, tra esistenza e provvidenza, ad innescare la ricerca delle cause prime?

Qui Vonnegut lo fa partendo dagli effetti ultimi, quelli di uno sfacelo apparentemente disperato in cui l’essere umano, piuttosto che cercare altre vane speranze, deve diventare speranza esso stesso, rischiandosi in quello che forse si paleserà come un cosmico fallimento, dove ogni schopenhaueriana volontà farà spallucce davanti a ciò che gli esseri umani, senza bisogno di nature matrigne, riescono a fare da soli.

Personaggi principali di questa avventura, che si inquadra tra Terra, Marte, Mercurio e Titano, sono il bizzarro Winston Niles Rumfoord, miliardario oramai esonerato dai penosi obblighi dello spazio-tempo: una specie di Dottor Manhattan, ma con uno spiccato senso dell’umorismo ed un carnalissimo attaccamento al desiderio di porre a compimento certe cose per lui rimaste… sospese; e Malachi Constant, anche lui miliardario ma – fino a che la sua vita non viene completamente stravolta – penosamente legato ad un’esistenza ricca di tutto ma povera di ogni possibile significato.

Una matassa logica sbrogliata alla fine

Altro personaggio, forse il protagonista morale di tutta la storia, è l’infundibulo cronosinclastico, una sorta di wormhole spazio-temporale, di orizzonte degli eventi che, di fatto, rende possibile la stessa meccanica esistenzialista che Vonnegut mostrerà ancora in Mattatoio n° 5 (del 1969, dieci anni dopo il nostro romanzo), quando saranno gli istanti isolati di un’intera vita, estrapolati dal continuum della memoria e singolarmente rivissuti, a dare significato al tutto. Ne Le sirene di Titano, l’infundibulo cronosinclastico produce il medesimo effetto: permette di liberarsi del tempo e dello spazio, così che ogni evento diventi unico e capace di narrare il tutto; e anche lì, ciò che Vonnegut teorizza fantasticamente in termini di astrofisica quantistica coincide, di fatto, al metodo stesso con cui compone la sua narrazione: singoli eventi e singole scene, appena collegati da una matassa logica che potrà essere sbrogliata solo alla fine, costituiscono la modalità della successione narrativa. Vonnegut diviene egli stesso, nella costruzione dell’intreccio, l’ingranaggio (e l’ingannaggio…) simbolico portante del suo romanzo.

Per il resto… un po’ perché il romanzo è proprio fatto così (impossibile da sintetizzare in una trama che renda giustizia alla sua risoluzione), e un po’ perché non è certamente questo il luogo per dirvi noi le cose l’autore avrebbe voluto che foste voi a leggere, altro non si dirà. Se non che c’è anche un cane in tutta questa storia: un mastino di nome Kazak, il cui nome – palindromo – può essere letto da una parte come dall’altra… Forse, e sottolineo forse, questo è il più gustoso indizio narrativo che possiamo darvi!  ; )

Nel centesimo compleanno di Vonnegut, occorre ricordare che – come spessissimo avviene – coloro che riescono a farti sorridere di più sono proprio quelli che meno hanno avuto la possibilità di farlo in modo naturale, specie quando un bombardamento li ha segnati in un’età in cui, nel cielo, avrebbero dovuto ardere solo stelle cadenti. La ricerca dell’umorismo come qualità stilistica diventa allora, davvero, non la forzatura di chi vuol apparire diretto e semplice alla lettura (scrittori come lui ci riescono anche tossendo) ma l’incarnazione stessa di quella speranza che, in fondo, riesce a sopravvivere anche con una sola vibrazione di vita, come un armonium in una grotta di Mercurio: Vonnegut riesce a rimanere attaccato alla vita, anche in un pianeta di esistenza così vicino ad una fornace mortale che, in tali condizioni, non potresti mai chiamare Sole.

Se solo fosse vissuto quindici anni in più, oggi il nostro autore ci sentirebbe fargli gli auguri e, magari, se avesse ancora una buona vista, leggerebbe pure tutti i contributi che oggi gli abbiamo dedicato. Sarebbe certamente felice di questo, e non se ne dimenticherebbe facilmente; perché uno come Kurt non ha mai avuto antenne di controllo sotto il suo elmetto da scrittore. E poi, chissà, magari anche lui vittima di un infundibulo cronosinclastico – questa volta tutto letterario – potrebbe materializzarsi qui, su LuciaLibri, tra una recensione e l’altra, con lo stesso affabulatorio ghigno del sig. Rumfoord, o con una lacrima degna dello Zio.

Del resto, non è forse un libro una singolarità capace di farti uscire fuori dallo spazio e dal tempo, e di portarti in ogni parte dell’Infinito?

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