Un figlio che racconta la propria vita, fatta di reincarnazioni, lunga quattrocento anni. Una madre che lo smentisce e prova a sabotare quelle che bolla come fantasticherie. Un debutto che lascia a bocca aperta, un viaggio nell’ebraismo, un’avventura fantasmagorica. “Anime” dell’israeliano Roy Chen è un disinvolto azzardo, che tiene assieme incongruenze dell’invenzione e imprevisti della realtà, grazia e spietatezza, scatto dell’assurdo e rigore della logica
Azzardare paragoni è quanto più di pericoloso si possa fare quando di mezzo ci sono scrittori e libri. Ma è un giochino che vale la pena di rischiare davanti al “caso” Roy Chen. Nell’ultimo terzo di secolo, probabilmente, solo un altro scrittore israeliano si è presentato al pubblico italiano con un libro più potente, maturo e centrale nella letteratura contemporanea. Il riferimento è a Vedi alla voce: amore di David Grossman, che però non era il romanzo d’esordio. Non potremmo dire altrettanto – per fare due esempi di autori di diverse generazioni – di Conoscere una donna di Amos Oz o di Nostalgia di Eshkol Nevo, primi “episodi” italiani di carriere poi scintillanti, quando non monumentali. Non è detto che Anime (336 pagine, 19 euro) di Roy Chen – scovato da Shulim Vogelmann (qui un suo articolo), editore di Giuntina, anche grazie a un blurb di Meir Shalev (altro grandioso scrittore, tanti suoi libri editi da Frassinelli, i suoi migliori, sono fuori catalogo, ripubblicarlo sarebbe cosa buona e giusta…) – sia necessariamente il primo capitolo di un percorso leggendario, ma di certo è un debutto che lascia a bocca aperta, con una scrittura colma di slanci e di spessore letterario.
Rivolgersi ai lettori
Anime, tradotto da Shulim Vogelmann e Bianca Ambrosio, è una vertigine di bellezza, una storia indubitabilmente ambiziosa che fa scorrazzare il lettore nel tempo e nello spazio e gli permette di gustarsi commedia e tragedia, reale e surreale. Roy Chen – che è anche drammaturgo e traduttore dal russo, predilezione per un’area letteraria che si sente parecchio fra le sue pagine – ha fatto una scelta di campo, rivolgendosi, attraverso i suoi protagonisti, direttamente ai lettori, in qualche modo sono anche loro le anime del titolo. Come fa? Così, per esempio, come si legge poco dopo la metà del volume:
Ma non è tutto, c’è dell’altro. E solo Dio sa dove troverò la forza di raccontare il resto. Ero un ragazzo così ingenuo. Non mi stupirei se fossero rimaste solo poche anime di quelle che erano con me all’inizio del libro. Vi supplico, voi che siete rimaste, non abbandonatemi. Le vostre mani che tengono il libro tengono me in vita. E se il vostro corpo chiede un po’ di riposo prima del prossimo capitolo, concedeteglielo. È ammesso riposarsi tra una reincarnazione e l’altra. Ma non vi dimenticate di tornare.
La disinvoltura di Roy Chen è il segno distintivo di uno scrittore che azzarda consapevolmente, conscio dei propri mezzi. Ci trascina forsennatamente, poeticamente, dagli shtetl al lager di Dachau (e a un piccolo circo delle pulci), passando per il ghetto di Venezia e un altro quartiere ebraico, quello di Fès, in Marocco. Un viaggio nel tempo giustificato attraverso il ghilgul neshamot, la trasmigrazione delle anime in cerca di pace, secondo la mistica ebraica. Quello che leggete, però, potrebbe essere una beffa. È Marina, la madre del narratore – che fuma, ingrassa, è senza lavoro – a mettere in guardia chiunque abbia fra le mani il libro. Lo fa a capitoli alterni, questa russa che mastica poco l’ebraico ed è riparata in Israele, a Giaffa. E si ritrova in casa un figlio quasi quarantenne che scrivendo… straparla, scrive uno sfrontato sproloquio. Sabotarlo, dal suo punto di vista è l’unica cosa giusta da fare.
Prima vi ho parlato con rispetto, vi ho aperto il cuore, ho pensato che siete persone perbene e poi? Mi giro dall’altra parte un attimo e voi continuate a leggere?! Non capite che fate male a Grisha? Non capite che è pericoloso per lui? Vi ho chiesto di uscire dal libro! Ve l’ho chiesto o non ve l’ho chiesto? Ve l’ho chiesto. E allora perché fate così? […] L’ebraico di Grisha è qualcosa di fenomenale, sono d’accordo, ci sono anche un sacco di informazioni, ma è tutto da Internet? È un problema cercare «ebrei a Venezia»?
Il montaggio, l’ironia, l’incanto
Il romanzo procede così, a strappi, si rievoca un tempo e un luogo, una fantasmagorica avventura, e un’altra, e un’altra ancora, lungo quattro secoli. E non si fa in tempo a leggerla che un’altra campana sconfessa tutto: è tutta una chimera, una fantasticheria. Inutile, ogni volta, inseguire i destini di un fratello e di una sorella a partire dal diciassettesimo secolo (prima Ghetz e Ghittel, poi Ghedalia e Gheyle, poi Gimol e Gavriel…), che cambiano non solo le coordinate spazio-temporali in cui si muovono, ma anche le caratteristiche fisiche, anagrafiche, che cambiano genere l’uno con l’altra e arrivano ad amarsi, dunque in qualche modo incestuosamente. Amori, delitti, suspense, allusioni, paradossi, colpe da espiare. Ne avete lette di storie così, ma la voce, il montaggio, l’ironia, l’incanto, il felice caos che Roy Chen è riuscito a creare, non possono passare inosservati.
Un variegato manto d’Arlecchino
Incontriamo anime abbandonate e in cerca di un’identità, sole, smarrite ed erranti – non solo i migranti Grisha e Marina – viaggiatori nell’ebraismo lungo i secoli, infine spaccati attuali di Israele. È una lunga, sofisticata metafora, questo felicissimo romanzo di Roy Chen, ironico, poliedrico e raffinato, capace di montare uno dietro l’altro congegni rocamboleschi, una ricchissima cromatura, un variegato manto d’Arlecchino, e il rischio di finire, spesso e volentieri, sull’orlo di un precipizio. Nel quale, però, non cade mai. Anche quando può sembrare sgangherato tenere assieme un racconto di sapore yiddish con un testo teatrale, Roy Chen è abile e riesce, con la sua felicità inventiva e qualche virtuosismo, a dargli coerenza narrativa, intrecciando incongruenze dell’invenzione e imprevisti della realtà, grazia e spietatezza, scatto dell’assurdo e rigore della logica.
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