Una specie di anti-Kundera, o soprattutto uno Steinbeck, ma con la leggerezza che assolve. Ecco a chi fa pensare Bohumil Hrabal con il suo “Ho servito il re d’Inghilterra”, in cui racconta un’esistenza rutilante e rocambolesca, quella di un cameriere di piccola statura, dall’incubo nazista al giogo all’ombra dei bolscevichi, dalla spensieratezza, ai colpi della vita, alla libertà…
Negazioni inconsapevoli e assertive, un auto da fé che strappa sorriso e asciuga lacrime, ridicolizzando gli stessi patemi ideologici dell’autore in fatto d’arte e le adesioni stilistiche pronunciate a tutta bocca: il miglior modo di onorare se stessi consegnando – inermi, atterrati dal fatto e dal fato che sempre soggiogano il fatuo che alberga del vezzo della comparazione – all’immortalità, che è il regno ignaro dei grandi. Negarsi. E i paragoni da spot recensorio gettati, tutti, a capofitto nel pattume dell’enfasi. Fin dai primi inchiostri di quel manifesto occulto di Bohumil Hrabal che è Ho servito il re d’Inghilterra (218 pagine, 12,90 euro, tradotto da Sergio Corduas per e/o), lavora, ben presto messa in fuga dallo spray dello sghignazzo amaro, dal suffumigio del sospiro dolorante, la pulce dei paralleli: Hrabal? Hemingway di Boemia – come no? – il redivivo irrequietissimo Kafka. E compagnia facile leggendo. Invece, accettando per un istante l’ingaggio di quella ludopatia intellettuale che è il comparar forzoso, è subito a John Steinbeck che penso, ma con la leggerezza che assolve: il gioco infinito del primo sesso e delle bravate, delle bevute e delle scampagnate nei bordelli, camporella di avvicinamento e calor fatuo di cosce generose; l’amicizia complice con le facce sbozzate a legno di colleghi camerieri e maître, le mani bucate e le banconote stese al pavimento senza taccagneria, in una hotellerie antropologica che di Praga e dintorni fa Parigi sì, ma fuori del quadro idillico: quella senza pompa magna, quella della spensieratezza. Ricchezza come copia, opulenza come generosità ebbra. Nel vicolo Cannery di Steinbeck non hanno il becco di un quattrino, si amano e pestano allo stesso modo, soltanto la porta delle camere da letto e dei catini pestilenti di hangover sono rispettivamente chiuse e immaginati.
Prima ricco e folle, poi povero e sano
Il nostro è un piccolo di camera, mozzo mozzo in sostanza e attributo (è basso e tarchiato, gli pesa) che vede la curva storta della propria vita arrivare all’acme del successo come hotelier mentre la Cechia, l’Europa, il mondo sprofondano nell’incubo nazista. Giusto lì, sul finale dell’iperbole della proporzione inversa, il monolite della vita animale (d’anima) si spezza in dicotomia perfetta e perversa, dove il seme gioiosamente sperso nei bordelli di campagna, viene invece custodito e domiciliato con dolo nei grembi ariani di ragazze scelte per l’immensa monta artificiale del Reich. Il nostro partecipa a quel Sabbah di sterile fecondità, surreale in realtà, generando un bimbo sventurato e in ritardo, in loop ossessivo nell’unica azione che sa condurre bene: piantar chiodi in assi di legno, con perfezione assoluta. Innocente, però macchiato, ilota cognitivo della vita, che pianta colpi nella testa di un padre che, in futuro, sentirà quei colpi tutti i giorni e tutte le notti, fino alla liberazione data dalla libertà assoluta. Confisca bolscevica della sua cava trasformata in albergo di lusso, resto di esistenza condotta come stradino nei boschi di Boemia. Povero e sano adesso, prima ricco (di che?) e folle.
L’affare Steinbeck che sparge odore nelle prime pagine del gioco dei confronti, diventa sbalorditivamente reale quando il Nobel americano fa davvero capolino, personaggio in dormeuse davanti al lago dell’albergo-cava, che al nostro chiede di acquistarlo, quell’albergo. Annuncia la perdita, la conciliazione, sposta quell’angolo di Boemia dentro Pian della Tortilla. Senza saperlo.
Facendosi bastare l’imperfezione percepita
Senza sapere, in verbo e sostanza: senza conoscenza preconcetta e senza intenzione, si fa storia e identità. Hrabal che in poscritto avvisa dell’incompiutezza dello scritto, Hrabal che vuole un racconto lungo e invece consegna un romanzo, Hrabal che enuncia ammirazione per il surrealismo e Dalì mentre mastica realtà, Hrabal che senza sapere diventa Bohumil Hrabal, facendosi bastare l’imperfezione percepita per dare alla civiltà letteraria l’armonia rivelata: quei chiodi rimbombanti, ritmici, in luogo del rutilante esercizio di macchine impazzite, altoforni e stile surrealista (notevole, certo) della Kafkeria e dei racconti a quella collegati. Hrabal che il surrealismo lo beffa, senza volere né sapere, creando un irriproducibile Straniero lontano dagli accecanti crepuscoli di Algeria, dove un altro uomo in rivolta, Albert Camus, conquistava il grasso che cola nella sua critica all’esagerazione d’inventiva sfrenata spacciata per pozione magica dei mali del tempo, il nostro tempo. Hrabal vicino chilometri, lontano anni luce dal boemo più permeato nelle letture d’Occidente: quel Kundera per il quale “confondersi, identificarsi è il mistero della poesia”. Invece no, non per Bohumil Hrabal, dicotomico e creatore di essenziale unità ricomposta da una penna superbamente preterintenzionale.
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