Un’infanzia di violenze e vessazioni per il solo fatto di essere donna, la tempesta della guerra civile, l’addio alla propria patria, l’approdo oltreoceano. Eppure nel memoir di Shugri Said Salh, “L’ultima nomade” ci sono la testimonianza di vita vissuta e i caratteri di una cultura millenaria
Entro in punta di piedi in questo consiglio di lettura dedicato a L’ultima nomade (255 pagine, 18 euro) di Shugri Said Salh, tradotto da Elisabetta Crisafulli, per Mar dei Sargassi edizioni.
Entro, innanzitutto, con la prudenza con cui si varcano le soglie di luoghi e di civiltà sconosciuti: cercando di tradurre il rispetto in un uso parsimonioso delle parole e dei gesti per scongiurare accidentali “sacrilegi” o involontarie offese, ben consapevole che le mie conoscenze geo-politiche del continente africano e della situazione socio-culturale dei suoi singoli Stati, vanno dal lacunoso allo zero.
Entro con l’imbarazzo di portare un contributo alla discussione probabilmente deludente per chi si aspetta che le mie osservazioni si sviluppino su quel piano squisitamente sociologico entro cui io stessa, prima di immergermi nel libro, ero certa mi sarei mossa.
Una prospettiva sociologica?
I molti fattori che contribuiscono alla scelta di una lettura, infatti, sono orientati spesso da e convergono verso un’unica direttrice. Nel caso de “L’ultima nomade” il mio interesse era polarizzato intorno ad una prospettiva di genere. Ero certa che lo sguardo e la voce di una donna somala che ha sperimentato l’infanzia nel deserto ed è poi approdata, da adulta, in America fuggendo del paese natio dilaniato dalla guerra civile, avrebbero espresso il punto di vista più funzionale alla mia esigenza di sottolineare come il prezzo più alto, in termini di mancato riconoscimento di diritti politici e civili, in contesti instabili e arretrati, spetti sempre alle donne. Ad avvalorare il mio proposito, così ideologicamente connotato, anche la dichiarazione di intenti proposta nel suo sito da Mar dei Sargassi – che ha pubblicato L’ultima nomade in Italia – la nuova realtà editoriale campana nata come gemmazione della omonima testata giornalistica online fondata nel 2016. Nel presentarsi al pubblico, infatti, la casa editrice «indipendente, non a pagamento, internazionale», si propone come megafono per le voci dei relitti della globalizzazione, etichettati dalla cultura dominante sulla base della “differenza” – di genere, di razza, di ceto, di nazionalità, di orientamento sessuale, di religione, di stile di vita.
La matrice orale, la lingua essenziale
Cosa mi ha fatto deragliare dal binario di partenza e riconsiderare L’ultima nomade – un racconto pieno di dolore ma anche di speranza e positività – prevalentemente per il suo valore narrativo? L’abitudine di ascoltare le interviste reperibili in rete degli autori di cui so veramente poco. Esse forniscono una vincolante “interpretazione autentica” del libro.
Dalle parole di Shugri Said Salh, dalla sua energia, dai punti sui quali ha posto l’accento mentre parla del suo memoir, ho desunto “una guida alla comprensione del testo” che mi ha fatto dubitare del mio approccio iniziale. Ho guardato, perciò, alla sua autrice non come a un’attivista – cosa che avevo dato per scontato fosse – ma come a una scrittrice – ruolo nel quale, invece, si è proposta in ogni singola intervista -. Ho, quindi, riesaminato il tono e il ritmo della scrittura: lineare, semplice, quasi primitiva, a tratti priva di mordente. Una essenzialità che, prima, otteneva crediti solo in quanto controbilanciata dall’importante valore del messaggio veicolato, come a dire: – “il libro trae forza non da come è scritto, bensì dall’argomento”. Con il mutamento di prospettive, ora, ne riapprezzo il taglio scarno: più che elementare è ancestrale. Recupera integralmente i caratteri della tradizione narrativa e poetica somala di matrice orale, nel cui solco si muove.
Accettazione, emancipazione, appartenenza
Tante le esperienze condivise da Shugri Said Salh con i lettori. Il distacco dalla madre, che in tenerissima età, la conduce dalla nonna affinché le faccia da bastone nelle fatiche quotidiane. I giorni e le notti di migrazioni nel deserto insieme ad Ayeeyo, appunto, la nonna poetessa che le instilla il gusto per il tramandare storie. Il terrore per gli animali notturni, le fatiche di procurarsi l’acqua. Il complesso rapporto con il padre durante gli anni in città, quando è richiamata in seno alla famiglia perché abbia un’istruzione. La tragicità della guerra civile somala che la costringe a rifugiarsi in Kenia. Il viaggio verso il Canada, prima ad Ottawa, poi a Toronto, dove termina il percorso di studi per diventare infermiera e da cui parte per approdare in California, luogo attuale di residenza. Eppure, fosse stato per me avrei intrapreso una furiosa cavalcata tra le pagine puntando ad un unico traguardo: soffermarmi sullo straziante resoconto dell’infibulazione, subita, insieme alla sorella, proprio durante gli anni del nomadismo. Il drammatico picco di una serie di violenze, vessazioni, esclusioni, patite in quanto donna. Colpisce, tuttavia, che nella voce di Shugri Said Salh non si colga mai rancore. Piuttosto lo spirito è di accettazione di un passato determinato dalle tradizioni tribali della sua gente e ad esse vincolato. Sebbene emancipata dalle più retrive espressioni della cultura avita – non avrebbe mai sottoposto le figlie alla mutilazione genitale, ad esempio – rivendica con fierezza la sua appartenenza a quel conio.
Come tessere di un mosaico
Questo memoir, di cui vi consiglio la lettura, raccoglie, come tessere di un solo mosaico, testimonianze dell’animo popolare somalo, ricchissimo di valori culturali, così come temi e spunti offerti da quotidiane esperienze vissute in Somalia. Nasce, dunque, da una volontà di farne testimonianza. Spero siano accolte con desiderio di comprensione.
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