Quindici racconti, uno “scherzo” fecondo, coltivato fra tanti dubbi. La sfida di pubblicare un volume che fosse lontano dall’orrore del lager. Un tono ironico, uno sguardo fantascientifico, non di evasione o intrattenimento, per riflettere sulle nuove tecnologie. Torna “Storie naturali” di Primo Levi, negli anni Sessanta snobbato o bocciato da gran parte della critica. E invece è specchio dell’anima ibrida di Levi, della sua vasta cultura, della possibilità della scrittura come terapia e resistenza all’orrore, anche se Auschwitz è comunque in agguato…
Una faccenda tremendamente seria, altro che divertissement, una faccenda nata oltretutto in anni in cui la letteratura non apparteneva alla periferia del dibattito nazionale, e i libri “incendiavano” cuori e cervelli. A Primo Levi, uomo di scienze e di lettere, la fantascienza – chiamiamola così, con approssimazione, Calvino la definì più originalmente “fantabiologia” – parve un buon compromesso fra le due anime che scandivano le giornate della sua vita, chimico e letterato, tecnico in una fabbrica e testimone dell’eccidio di massa della Shoah: si definiva, in tal senso, un ibrido, un centauro e Quaestio de Centauris è, non a caso, uno dei suoi racconti più riusciti. Fu una sfida pubblicare un libro così lontano da quelli in cui aveva rivissuto l’orrore e che gli avevano dato la fama, fu l’occasione di mostrarsi scrittore totale, come Verne, come Vonnegut, come Kafka, come Orwell, come Borges: scrittore di una fantascienza non ortodossa, non avveniristica, scrittore di fantasia e d’invenzione, di utopia e sogno, di vena mitologica per certi versi; un’opportunità colta per far vedere che sapeva fare questo e altro lo scrittore che aveva già fatto i conti due volte con i macigni dell’universo concentrazionario. Nacquero così i quindici racconti, alcuni scritti per l’occasione, altri già apparsi in riviste, di Storie Naturali (XIV+276 pagine, 20 euro), ora ripresentati da Einaudi con cura, prefazione e postfazione di due studiosi di valore, Martina Mengoni e Domenico Scarpa, che da tempo scandagliano opera e personalità di Primo Levi.
Tra parentesi
Breve parentesi, la nuova vita editoriale di Storie naturali di Primo Levi coincide con il centesimo numero della collana Letture di Einaudi, che comprende opere e scrittori leggendari, da Rulfo a Schulz, da Perec a Sabato, da Del Giudice all’Ulisse di Joyce nella versione di Gianni Celati, da Hrabal a Biamonti, da Cortazar a Biamonti, da Celine a Bernhard. E altri non citati sono di simil guisa.
Seconda breve parentesi: nell’estate del 1966 Storie naturali finì in libreria per Einaudi, ma l’autore, su consiglio del direttore commerciale Roberto Cerati, si nascose dietro uno pseudonimo, Damiano Malabaila, generalità tratte dall’insegna di un elettrauto di Torino. Una scelta sofferta, quella di aderire agli ordini di scuderia. Ernesto Ferrero ammetterà che era stato un errore, sottolineando: «Siamo stati noi einaudiani a chiedergli questa precauzione superflua. In realtà non avevamo capito allora quel che è diventato chiaro in seguito: che non ci sono due Levi, il memorialista e il libero narratore, ma uno soltanto, in cui tutto si tiene». Un volume di Carlo Zanda, edito da Neri Pozza, spiega minuziosamente questa vicenda e un camuffamento in realtà non particolarmente riuscito. Il titolo è Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila. Vale la pena recuperarlo, aiuta a comprendere meglio queste novelle di vita non vissuta, che guardano a classici immensi, Plinio e Lucrezio, e Rabelais, citato esplicitamente in esergo
Non quattro galline, ma una…
Primo Levi anticipa, colpisce nel segno, senza vendere futuro a buon mercato. Non fatevi ingannare da certuni che strepitano e starnazzano. Intendiamoci, sono più che buoni, sono splendidi, gli esiti di Zannoni e della sua faina (ne abbiamo scritto qui), premio Campiello con I miei stupidi intenti (Sellerio), o de L’assemblea degli animali del misterioso Fidelfio, caso letterario su cui ha scommesso Einaudi. E sono ottimi il bestiario di Anima di Wajdi Mouawad (Fazi), Quattro galline di Jackie Polzin (ancora Einaudi), come pure i racconti di Natura corta (ne riparleremo…) del marsalese Diego Leandro Genna, che ha debuttato per Agenzia X. Applausi per tutti. Ma poi prendete solo Censura in Bitinia, secondo racconto di questa raccolta. Godete del sarcasmo contro l’ottusità dei regimi totalitari che censurano, godete dello humour finissimo, del lessico implacabile e del gran finale, la firma in fede della zampa di una gallina (non il solo animale del libro, notevole anche la tenia de L’amico dell’uomo, e poi orsi, rospi, serpenti…). La misura delle frasi, la sintesi deliziosa, poco più di quattro pagine in cui una presunta allusione oscena, derivata da un refuso, costa il patibolo a un illustre critico. Primo Levi ci consegna il racconto perfetto di uno scrittore d’invenzione. Non il solo di questo libro benedetto, che avrebbe vinto il premio Bagutta.
Simpson e le “premonizioni”
C’è una mini cornice per alcuni dei racconti di Storie naturali, ovvero il rapporto e gli incontri fra un anonimo poeta, lo stesso autore, e un fantomatico Simpson, agente di commercio che mostra a Levi le novità tecnologiche di una multinazionale con sede in America, la NATCA («I padroni della NATCA hanno per ogni loro azione solo due scopi, che poi si riducono a uno: guadagnare quattrini e acquistare prestigio, che poi vuol dire guadagnare altri quattrini»). Il risultato è anche qualche “premonizione” paradossale o grottesca: una specie di macchina che consente di fare esperienze virtuali, di simulare qualsiasi situazione, il Torec dell’ultimo racconto. L’interlocutore di Simpson gli chiede: «Ma chi avrà la forza di volontà di sottrarsi a uno spettacolo Torec? Mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga: chi lavorerebbe più? Chi si curerebbe ancora della famiglia?».
Nè mostri né astronavi
Filosofia, scienza, biologia, zoologia, tutto il multiforme sapere (e ingegno) di Primo Levi è riversato in queste pagine che grondano cultura senza spocchia, in cui si ravvisano “fonti” delle più disparate, da autori della classicità a scienziati, in cui non è difficile assistere a creazioni, evoluzioni, metamorfosi. E in cui ci si interroga – tra serio e faceto – sullo sviluppo scientifico e tecnologico (si pensi al racconto Il Versificatore, nato come atto unico radiofonico, in cui un poeta acquista uno strumento capace di scrivere versi al posto degli esseri umani; si pensi ad Alcune applicazioni del Mimete, fotocopiatrice in grado di duplicare anche… individui, una specie di clonazione ante-litteram). In fondo è uno “scherzo” fecondo questo volume che a oltre mezzo secolo di distanza mantiene intatto un fascino discreto ma inesorabile, di pastiche fantascientifico che non ha bisogno di mostri verdi o astronavi. Molto incoraggiato da Italo Calvino, Primo Levi procede, oltre che con la sua anima ibrida, anche con una scrittura da… centauro: un linguaggio classico e cristallino, rigoroso, che non disdegna qualche deviazione, fra tecnicismi e sperimentalismi, gerghi e burocratese.
Ma Auschwitz non è così lontana
Quella che sembrerebbe una pausa fortemente voluta dal costante confronto con Auschwitz non riesce fino in fondo. Memoria e inquietudine restano temi non sullo sfondo in queste quindici piccole opere buffe. La scrittura come terapia e resistenza all’orrore viene dispiegata in pagine briose, in passaggi esilaranti, in parodia di alcuni generi. Gli incubi del lager, però, non mollano Primo Levi e tornano, come confermato dall’autore in alcune interviste, in almeno tre storie: Angelica Farfalla, Versamina (entrambi ambientati in Germania) e La bella addormentata nel frigo. Forse anche, ancor più velatamente, in Trattamento di quiescenza.
La sfortuna critica
Un percorso quasi totalmente non compreso da molti diffidenti e superficiali critici dell’epoca (di ogni colore e di ogni deriva ideologica), colmi di pregiudizi per quella che era considerata una “giravolta”, oltretutto verso un genere di serie B, di disimpegno, intrattenimento, evasione. Naturalmente non è questo l’intento di Primo Levi, anticonvenzionale e fuori dagli schemi come scrittore, onnivoro anche come lettore; né questo è l’esito del suo terzo lavoro dopo Se questo è un uomo e La tregua. Le sue sono operette morali che, mescolando scienza e fantastico, sono capaci di essere spassose, ma che hanno un nocciolo complesso, che prendono di petto il progresso scientifico e il suo impatto sulla natura umana, ma anche l’alienazione della società del presente e del futuro, che non dribblano l’angoscia e la sofferenza, «la miseria umana», come puntualizzano nella postfazione Martina Mengoni e Domenico Scarpa. Sono racconti imprescindibili, che i lettori divoreranno e che divoreranno i lettori.
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