Un poemetto in due tempi, quelli infiniti dei due lockdown, è “Non esisto fino a data certa” della poetessa Michela Chiaborelli. Un linguaggio ricercatamente semplice, diretto e mai scontato. La vita si manifesta plasticamente nella forma di una malattia mortale, di avvoltoi e mostri. Ma qualcosa tiene a galla…
La prima parola è un ringraziamento all’autrice, Michela Chiaborelli, che mi ha dato la possibilità di esplorare il suo universo linguistico ed esistenziale. Una gentilezza che cercherò di ricambiare. Un grazie anche per aver voluto condividere con noi i suoi squarci di quarantena, questo è il sottotitolo del libro Non esisto fino a data certa (156 pagine, 12 euro), edito da Liberodiscrivere. L’autrice ha senz’altro dato voce a tutti noi, facendo parlare sè stessa: nelle sue parole, nelle sue liriche non possiamo che ritrovare i medesimi sentimenti d’angoscia che ci hanno attanagliato in quei giorni. Ma questa silloge è in realtà molto di più: spero di rendergli merito con questa breve recensione.
Il testo di Michela Chiaborelli si presenta nella forma di un poemetto in due tempi, gli infiniti tempi dei due lockdown. Le poesie non hanno titoli; seguono una numerazione progressiva che ricomincia daccapo nella seconda parte. L’incipit, datato 15/03/2020, è già il preludio di un tutto che scorrerà a cascata nelle drammatiche pagine a venire: “Tutto sembra muoversi. / Dalla finestra chiusa/ osservo le luci/ ascolto voci/ immagino vite, carezze/ il profumo della domenica/ cantilene ed armonie,/ mi cibo d’avanzi/ lasciati a marcire/ nella cuccia del cane”. Nella scena di lei alla finestra ci siamo tutti noi, dicevo. Ma è il primo verso ad introdurre la poetica della Chiaraborelli, che si esprime per dicotomie: stasi-movimento, apparenza e realtà, notte e giorno (già nella lirica successiva), presente-passato, presenza-oblio, eccetera. Questo universo concettuale quasi platonico, è suo ben prima della pandemia, come dimostra il titolo della sua raccolta precedente Un passo a due. Eros e Thanatos (2018, libro tradotto in francese che gli è valso diversi riconoscimenti). Ma quel mondo di immagini contrapposte si esprime con linguaggio ricercatamente semplice, diretto e mai scontato. Nessun termine arzigogolato (!), pochi fronzoli e tanta anima. Una sfida rischiosa e coraggiosa: rischiosa perché il banale o il patetico sono appostati dietro l’angolo del linguaggio; coraggiosa perché l’autrice si presenta nuda, senza nascondersi dietro a forme ricercate e vanitose di ermetismi, senza veli di metafore troppo spesse. E Michela esce certamente vincitrice da questa sfida. Altra evidente caratteristica di questa raccolta è la lentezza. Un tempo indefinitivamente diluito, ma dalla dinamica distorta (cfr. p.60). La stanchezza del lockdown accentua lo strascico di quella vita che portiamo dappresso. Tutto in quei giorni ci appare cristallizzato,e il mondo sembra scorrere come in una demoniaca moviola: lente scorrono le stelle (p.12), le giornate colano dai muri (p.15), corpi che lenti vengono consegnati ad un Caronte buono (p.20, riferimento ad un’immagine che non dimenticheremo!), il sole che si alza stanco in una “solita alba che ci divorerà nel divenire di un inganno,/ attenderla non è un obbligo” (XII, p.19).
Un mondo linguistico rarefatto
Al di là delle immagini, l’autrice ci fa respirare in un mondo linguistico estremanente rarefatto, perché la vita manca come l’aria e parole si presentano come grumi di sillabe e sangue (p.49). La vita si manifesta plasticamente nella forma di una malattia mortale (vedi il Covid, ma vedi Kierkegaard), dove il concetto di angoscia si dipana tra un momento e l’altro, da parola a parola. Oggi più di ieri sembriamo inutili maschere in un teatro dell’assurdo, ove farsa, artificio, finzione, ci agitano nello spettro della paura (cfr.ad esempio p.63 o p.71: “Non rispondo più/ non contatto più/ resto sospesa/ come in un disegno di morte/ vedo il mondo rattrappirsi/ non esisitiamo più/ siamo protagonisti infiniti/ di gesti che nonn sanno più possedere”). Il domani è talmente incerto che perfino la menzogna potrà essere utile a lenire le ferite; ed in attesa che “una mano evanescente (possa)/ accarezzarci i pensieri/ nel tunnel nero d’angoscia”…./Chi ride, chi scruta, chi dorme/ chi legge, chi parte, chi urla/ vince sempre la paura/ credetemi” (XXXIV, p.35). E noi gli crediamo: contro l’angoscia, ciò che porta all’azione è già una vittoria della vita. Gli amori, i desideri, le passioni non vanno lasciati sul tavolo, come i resti di un pasto: non sprechiamo nulla dell’esistenza, prima che avvoltoi di varia natura vengano a mangiarsi i nostri scarti di possibile felicità (cfr. p.13).
Mostri e luoghi oscuri
Non ci sono solo avvoltoi. L’autrice allude a numerosi mostri che agitano la sua e la nostra vita. Questi mostri si presentano in sogno durante delle notti che non passano mai e che assomigliano al sonno dei dannati (p.111). Ma il vero problema è che c’è ancora troppa notte nei risvegli di queste mattine (10/10/’20, cfr. p.106). Nella lirica LXVI l’autrice torna su questa idea, richimando il rischio di “abitare/ le prime ore del mattino,/ quando Morfeo incanta ancora i sensi/ e tutto è stupore/ la paura è ovattata/ e il buio sussurra/ il nero profuma/ i suoni non stridono/ e nasce e rinasce/ l’illusione/ di quell’eterno mai nato”. Ma qualche pagina prima c’è forse la lirica che mi ha colpito di più, e che mi pare essere il luogo più oscuro per la Chiaraborelli. Anche la lingua per un attimo è più criptica; noi ci permettiamo di entrarvi in punta di piedi, visto che lei ci ha mostrato questo luogo:
Del mostro
che sai o che non sai
riconoscerai la colpa
di non aver amato
la sua mancanza.
Giochi allegri
come altrove
riportano l’arroganza
al punto di partenza
e tutto ritorna.
Hai sognato un bosco
e sei sparita.
La sensazione del nulla
Tutti hanno la propria tana del Bianconiglio, oscura e profonda, sia che ne siamo coscienti oppure no. Durante la pandemia è cronaca che molte famiglie, coppie o singoli soggetti hanno avuto a che fare in maniera più ravvicinata con questi mostri, ed abituati alla fuga nel quotidiano lo scontro diretto li ha visti spesso soccombere. Già ben prima del Covid infatti, viviamo in DaD dalla nostra esistenza più autentica, e adesso che siamo soli di fronte a noi stessi, preferiremmo una lunga anestesia (cfr. p.87). Certo, abbiamo atteso il ritorno alla vita reale per una giocarci una chance, dopo “mesi di solitudine/ mesi senza pelle/ da sfiorare…” Una solitudine con molti nomi (cfr. pp. 40-41). Abbiamo vissuto con la sensazione del nulla come un’incognita che si gonfia e spazia e adesso… come sarà la ripartenza? Quella dei nostri conflitti, della disumanità? Riporto, senza inutili commenti. E continua:
Di certo non siamo cambiati.
Avremmo dovuto rompere gli specchi, vetrine
invece ci siamo agghindati
truccati, modificati. Solo per noi.
Per il nostro riflesso sugli altri.
Corrotti dal nostro narcisismo.
Nessuna pietà. Il fuoco sfiora ma non brucia nessuno.
Siamo ignifughi, siamo asettici. Lontani.
Inutili. Superflui. Social.
Un tu che ci salva
Se pensate che l’autrice sia troppo dura con l’umanità… beh meno male che non ho riportato alcuni versi in cui le mazzate arrivano anche più pesanti. E meritate, se posso esprimermi. C’è qualcosa del Qoelèt nel pensiero della Chiaborelli (Inizia tutto dalla fine/ e poi ricomincia/ triste la nostra giostra/ sospesa nel vuoto/ che urla e si spegne. XVIII,p.97). Ma in questa vita vissuta per sbaglio, non c’è proprio niente che ci salva? Per fortuna c’è sempre un tu che ci salva (cfr. p.133), fosse anche una passione effimera. Il tuo abbraccio mi salva, quello dell’amante, dell’amato. A pagina 133 afferma di non amare il sole, il suo candore, il caldo, le voci dell’estate… ma non ci crede nessuno, nemmeno lei. Ci salvano i nostri desideri, quelli più luminosi delle stelle saldate in cielo (p.131). “Mi salva incontrarti/ un giorno, per caso/ non sai, non so/ che tra di noi/ si sta svolgendo/ la più belle fine del mondo” (lirica LXXVX, p.155 e fine del libro).