Le miserie dell’imperialismo inglese nell’est asiatico sono al centro del primo vero romanzo di George Orwell, “Giorni in Birmania”. Lo scrittore – che condanna senza appello il colonialismo – soggiornò a lungo in quei luoghi e romanza vicende realmente accadute. Affida i propri pensieri all’inglese Flory, mercante di legname, che finisce in mezzo a una lotta di potere e a un amore difficile…
C’è in giro una nuova esemplare traduzione, quella di Andrea Binelli per l’editore Newton Compton, di uno dei primi libri di George Orwell. Accantonate per un attimo i suoi ingombranti e celeberrimi titoli, 1984 e La fattoria degli animali, spazzate dalla mente distopie e allegorie. Resterà comunque uno dei maggiori interpreti letterari del Novecento e uno dei principali scrittori politici di sempre. Scrittore politico, contro ogni totalitarismo, George Orwell, ben prima dei capolavori e successi planetari pubblicati negli anni Quaranta. Già nel 1934, ispirato da vicende intime e da un soggiorno personale lungo oltre cinque anni, con Giorni in Birmania (316 pagine, 9,90 euro) – che una volta il mitico Arbasino aveva liquidato come «sottoprodotto disilluso di Passaggio in India di E.M. Forster» – aveva squassato l’atmosfera letteraria del tempo, censurato in Gran Bretagna e pubblicato prima negli Stati Uniti che in patria. Perché mai? L’inquieto e controverso scrittore nato in India, prima che nei suoi titoli proverbiali, aveva infuso in questo suo primo vero romanzo altre pagine di natura satirica e contrapposizione alle ingiustizie, e nello specifico all’imperialismo inglese. Quelle appunto di Giorni in Birmania.
Prima complice, poi accanto ai più deboli, ovunque
Militare coloniale, agente della polizia imperiale indiana, tra il 1922 e il 1928 in Birmania (che solo nel 1948 otterrà l’indipendenza dall’impero britannico), Orwell vedrà con i propri occhi (e li rivivrà con rimorsi e sensi di colpa…) atrocità, soprusi, manipolazione della verità, razzismo, scintille definitiva della vocazione da scrittore, che lo porterà lontanissimo, contro le ideologie più dispotiche e controverse, contro la propaganda, contro l’autorità – ispirato da un socialismo umanitario di base – smascherando bugie con la forza della letteratura. Smessi definitivamente i panni del complice dei colonialisti, Orwell deciderà di rischiare sempre sulla propria pelle, contro qualsiasi forma di disuguaglianza, per sposare le cause dei più deboli e sfruttati, dalla partecipazione alla guerra civile spagnola, al fianco dei repubblicani, fino a un’attività letteraria di continua denuncia e rottura degli schemi consolidati.
Fra discorsi progressisti e meschinità
Satira feroce delle ipocrisie della politica coloniale inglese, Giorni in Birmania è il romanzo di un working class hero indignato e con una coscienza pienamente formata; tratto da una storia vera, romanzata, a cui furono modificati i nomi reali dei principali protagonisti. Orwell affida i propri pensieri, nel romanzo, a un mercante di legname, insicuro a causa di una strana voglia sul viso, Flory, uno dei pochissimi inglesi residenti nella città di Kauktada, nella giungla birmana; a differenza dei connazionali, sprezzanti e razzisti, Flory, di idee bolsceviche, sembra curioso di conoscere la cultura locale, interessato all’arte e ai riti, un uomo colto che cerca di stabilire ponti con qualche abitante del posto, come il dottor Veraswami, che diventa suo amico. La figura di Flory non è comunque così specchiata, nel senso che ci sono più sfumature, più differenze fra le aspirazioni e la vita vera, fra i discorsi progressisti e cordiali con l’amico, e grettezze e meschinità che emergono nel rapporto con i servitori e con una concubina locale. Finirà, suo malgrado, in una lotta di potere fra alcuni dei birmani più in vista, che aspirano a un rapporto privilegiato col circolo elitario degli inglesi, e nel bel mezzo di una sofferta storia d’amore con una ragazza inglese orfana di madre, Elizabeth, che almeno inizialmente gli preferirà un altro, Verrall. Il finale della doppia vicenda, intriso di pessimismo e di sconfitta, non lascerà scampo. Ma resta nero su bianco il colpo inferto da George Orwell ai danni del colonialismo e dei suoi volenterosi ed egoisti carnefici.