“Titanio” è una favola nera dell’artista digitale Stefano Bonazzi che, tra le sue maglie, lascia ai lettori uno spazio per le loro fantasie e sensibilità. La voce narrante e delirante è quella di Fran, figlio adolescente di una “coppia disfunzionale” e di un quartiere dormitorio, che sconta una pena in un centro detentivo…
Non c’è mai un buon aforisma a portata di mano o quanto meno una citazione abbastanza pertinente quando se ne ha bisogno. Ho rimuginato parecchio su dove cercare e a chi sgraffignare una frase adatta ad introdurre il discorso su Titanio (163 pagine, 14,25 euro), romanzo di Stefano Bonazzi, edito da Polidoro.
Un romanzo… perturbante
Inizialmente, la mia indagine sottintendeva l’obiettivo di precisare al lettore lo scaffale verso il quale dirigersi in libreria. Un espediente grossolano, che nascondeva -lo ammetto- anche fini egoistici: evitarmi il rimbrotto degli insoddisfatti e dei delusi. Ambivo, cioè, a scansare le lamentele di coloro che, non usi o non interessati a certi generi della narrativa, avrebbero contestato di non essere stati sufficientemente delucidati sul punto. Lo stagno di pesca a cui ho pensato è quello horror/onirico/pulp/psichedelico della narrativa etichettabile, in senso ampio, come perturbante. Conseguente, quasi obbligata, l’idea di rivolgermi all’Ammaniti di Branchie, epigono del genere.
Straniamento e suspense fino all’ultima riga
È il primo romanzo di Stefano Bonazzi che leggo. Approfondendone la biografia, ho scoperto che egli affianca all’attività di narratore, l’altra di artista digitale. Ho dato, quindi, una scorsa alle sue opere. Sono chimeriche, fortemente pervase da suggestioni immaginifiche, solipsistiche e surreali. Deduco che anche nei precedenti libri la sua scrittura sia stata, come qui, orientata tanto esplicitamente verso il perturbante. Sono grande estimatrice di questo tipo di narrativa. Per tanto ho apprezzato tantissimo il lavoro di Bonazzi. In dettaglio, mi è piaciuto il modo in cui sono state create e mantenute, fino all’ultima riga, l’atmosfera di straniamento e la suspense di cui la storia si alimenta. Degna di menzione pure la capacità di coinvolgere il lettore, propiziata dalla ben equilibrata divisione dei capitoli, nonché dalla alternanza, perfettamente orchestrata, delle tre voci narranti. I ripetuti passaggi dalla prima persona alla terza contribuiscono a mantenere altissima la curiosità e la partecipazione di chi legge. Riuscito ed estremamente piacevole, infine, l’incantamento che dà l’impressione di maneggiare un cubo di Rubik le cui facce si comporranno con sensatezza nella risoluzione finale del puzzle investigativo.
Due pezze d’appoggio
Appropriatissima, anche per Titanio, la vecchia, ma sempre efficace, formula di giudizio che usava per i temi di italiano ai tempi del liceo: ottimo per forma e contenuto. Per scongiurare il pericolo che il discorso fin qui fatto si trasformi in una sorta di “divieto di accesso” per i non estimatori del genere noir-pulp, e al fine di estendere a tutti il consiglio alla lettura, punto ora sulla trama, visto che tanto l’ambito in cui si sviluppa l’intreccio, tanto l’argomento della storia sono tra quelli di imperitura, universale rilevanza. Ritorno al proposito iniziale di trovare citazioni autorevoli che fungano da “pezze d’appoggio” per il suggerimento. Questa volta procedo senza esitazioni. So a chi chiedere aiuto: Joyce Carol Oates e Philip Larkin. «L’idea classica di famiglia sembra ancora dominare le nostre vite e credo che sia difficile, soprattutto per un giovane, liberarsi dall’incantesimo dell’amore familiare – che può essere possessivo e stucchevole come nutriente e vivificante». Così risponde Joyce Carol Oates ad Anita Sehti, nel corso di un’intervista del 2019 per The Guardian, sollecitata a commentare le ragioni per cui la gran parte dei suoi romanzi indaghino le relazioni familiari. Ancora più esplicito Philp Larkin in questi versi tradotti da E. Testa:
Mamma e papà ti fottono.
Magari non lo fanno apposta, ma lo fanno.
Ti riempiono di tutte le colpe che hanno
e ne aggiungono qualcuna in più, giusto per te.
Ma sono stati fottuti a loro volta
da imbecilli con cappello e cappotto all’antica,
che per metà del tempo facevano moine
e per l’altra metà si prendevano alla gola.
L’uomo passa all’uomo la pena.
Che si fa sempre più profonda, come una piega costiera.
Togliti dai piedi, dunque, prima che puoi
e non avere bambini tuoi.
Non fermatevi alla superficie
Titanio di Stefano Bonazzi si inserisce nella dolente tematica. È, infatti, la biografia delirante di Fran, figlio adolescente di una “coppia disfunzionale”, nato e cresciuto in uno spazio/quartiere/dormitorio che è l’ennesima, metastatica anomalia di un tessuto sociale a sua volta alterazione di una periferia urbana. Lo conosciamo mentre sconta una pena in un centro detentivo. Il suo identikit emerge attraverso le confessioni che seleziona ad hoc per l’educatore deputato a “lavorare con e su di lui”. Negli anfratti delle pagine, una terza, misteriosa voce, questa volta non narrante ma narrata, leva il suo flebile grido d’aiuto da un letto di un irreale ospedale. A riassumerla così sembra «una grandissima storia del cazzo. L’ennesima storia di ragazzini traumatizzati e genitori malati. Di quartieri disagiati e mostri che non sanno dove sbattere la testa». Non vi fermate alla superficie. Buttatevi in apnea «in questo continuo gioco di specchi, nel susseguirsi di flash e distorsioni». Non siete psicologi. Non siete detective. Non siete giudici. Ricordatevi solo di essere lettori. Bonazzi ha lasciato, nelle maglie di questa favola nera, uno spazio per le vostre fantasie e la vostra sensibilità.
«Uno scrittore deve abbandonarsi al piacere di sognare, di scrivere; anche se ciò fosse imprudente. Però chissà che la massima felicità non sia la lettura.» (Borges)
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