Modelli altissimi per “La sirena di Black Conch” di Monique Roffey, romanzo d’ambientazione caraibica. Un tumultuoso amore fra un pescatore e una sirena, negli anni Settanta, è l’occasione per riflettere sulla condizione della donna e sulle ferite del colonialismo e della schiavitù
Mi sembrava un’americanata, di primo acchito. Mi sono ricreduta in fretta. Sono state sufficienti una trentina di pagine: mi hanno fatto subito pensare al realismo magico (un’americanata, obietterà qualche fastidioso e spiritoso grillo parlante, discorso più lungo e complesso, magari un’altra volta…) e del resto il contesto caraibico e l’autrice, originaria di Trinidad, padre britannico e madre egiziana, erano un ottimo biglietto da visita. Poi strada facendo si comprende che di americano, per certi versi, c’è un modello, esplicitato nella nota conclusiva, ovvero Hemingway, ma al pari di Garcia Marquez, e con un occhio a Neruda, citato in esergo. Si conoscono subito i personaggi principali, un pescatore con la chioma rasta, David, la sirena Aycayia (si torna a parlare di sirene, come di recente a proposito del romanzo di Arturo Belluardo, Ballata per la sirena), e un gruppo di ricchi yankee (in particolare Thomas e Hank, padre e figlio) con pochi scrupoli, che dà vita a una scena di devastante brutalità, quando pescano per l’appunto la sirena che, in precedenza, era stata ammaliata, sedotta, dalla musica della chitarra di David.
Storie di sopraffazione e annientamento
Con una prosa chiara e lirica Monique Roffey costruisce il suo romanzo La sirena di Black Conch (234 pagine, 17 euro), tradotto per Marsilio da Ada Arduini, facendo leva su una protagonista, su una natura lussureggiante, su parecchi personaggi (alcuni dei quali cruciali, sebbene minori) su più punti di vista, compresi quelli in versi di Aycayia (un tempo donna, da secoli e per secoli maledetta a vagare, a causa della gelosia di altre donne…) e di David, con le sue pagine di diario, in cui ricorda il passato, a distanza di quarant’anni, quel tumultuoso periodo dei Settanta in cui scoccò la passione per Aycayia. Al tema della sirena che andrà incontro a una metamorfosi forse non sorprendente, Monique Roffey affianca – specialmente attraverso la figura di una proprietà terriera, la signorina Rain – anche quello dell’eredità del colonialismo e della schiavitù, con storie di sopraffazione e annientamento, in questa immaginaria e archetipica isola.
Una donna libera e consapevole
Romanzo di contaminazione e dialogo fra mondi diversi, di opposizione totale a razzismo e discriminazioni, La sirena di Black Conch di Monique Roffey mette in scena anche la condizione femminile, attraverso una donna libera, erede di un antico popolo nativo, che prende gradualmente consapevolezza di sé.
Di notte Aycayia non riusciva a dormire. la teneva sveglia un futuro pieno della possibilità di possibilità. Dentro di lei si era risvegliato un profondo senso di consapevolezza che risaliva a tanto tempo prima. Aveva a che fare con l’essere donna e con tutto ciò che significava essere donna, vivere da donna.
Si può leggere come una fiaba, questo romanzo? Nì, nel senso che la sirena di Roffey è decisamente poco fiabesca, semmai iperrealista, una creatura marina bella ma senza incanto, profonda nei sentimenti (amore disperato e appassionato quello per David) ma talvolta goffa nelle azioni, umanissima, alle prese con scoperte, ferite, ricordi, speranze. Una lettura mai banale, che alimenta riflessioni a più riprese.
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