Un rovello millenario, la presenza del male e le atrocità della storia. Qual è il senso del dolore? L’idea più visionaria arriva da qualche passo dei poemi omerici. L’abissale rivelazione? È la vocazione estetica del male, la fonte inesauribile delle Muse… Una nuova puntata di A lunga conservazione
Sulla presenza e sul significato del male si sono sprecati fiumi d’inchiostro e di parole. È un rovello millenario connaturato all’esistenza: se vi pare, un modo altro di discettare sul senso ultimo della vita data l’evidente relazione biunivoca fra le questioni. Conoscere una delle due svelerebbe molto dell’altra.
Scienza e fede
Il cosiddetto Problema del male tenta di spiegare il paradosso della sua presenza nella sfera d’una divinità dai numerosi attributi (comunicabili e incomunicabili) fra cui Giustizia, Bontà, Onnipotenza e Onniscienza; e conseguentemente delle sorti del libero arbitrio in una siffatta condizione.
Il buon Wittgenstein ci ha provato: “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: un esplicito invito alla pratica del silenzio in nome della scienza e del buon senso.
Un monito caduco come un sibilo nel deserto, impraticato e impraticabile. Tacere su ciò di cui non si può parlare è ben più arduo che asciugare il pavimento del Titanic.
Invero, ho sempre trovato irragionevole il fatto che il silenzio di Dio non abbia scoraggiato gli uomini dal sentenziare in sua vece; ovvero di tenere assieme spericolatamente Scienza e Fede. Ma tant’è.
Sono tra coloro che pensano la fede come esperienza personale silenziosa e impronunciabile. (Per quel che conta in questa sede: in tarda adolescenza mi sono imbattuto nella Teologia negativa e nella Poetica della lontananza, scoprendo sorprendenti affinità col mio disordinato sentire di pubere inquieto. Sono stato un bambino difficile e lo sono ancora.)
Figli di un maldestro dio minore?
Il silenzio di Dio dinanzi alle atrocità della storia ha piagato le coscienze di tanti uomini di buona volontà, di filosofi, scrittori e persino di teologi e pontefici; e tuttavia ogni religione ha trovato spiegazioni confacenti ai propri statuti.
Il male come risultato del Peccato Originale; o come punizione divina per la malvagità degli uomini; o come parte integrante di un disegno divino imperscrutabile che il credente è tenuto ad accettare; o come tramite per la salvezza e la rinascita da fruire in un più confortevole mondo ultraterreno; o, in una prospettiva dualistica, come parte attiva del perenne conflitto fra Luce e Tenebre; e via dicendo, sino alla proposizione che il male non esista.
Nella pletora di tesi si staglia la singolare posizione dello Gnosticismo che spiega il male come conseguenza della creazione del mondo da parte di una divinità imperfetta: insomma, saremmo tutti figli di un maldestro dio minore.
Il termine Teodicea (alla lettera: giustizia divina) fu coniato da Leibniz, autore d’un celebre trattato dottrinale volto niente meno che a discolpare Dio dall’accusa di aver creato – e di consentire – il male operante.
Le argomentazioni non sono poi così ferree visto che il trattato si chiude con l’affermazione che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili. L’impressionante talento di Leibniz, a ragione annoverato tra i geni universali, soccombe inevitabilmente dinanzi all’irrisarcibile oscurità della metafisica.
Qual è il senso del dolore?
E veniamo alla ragione che ha suscitato questo intervento.
In entrambi i poemi omerici, l’arcano Cantastorie accenna proprio alla nostra questione: qual è il senso del dolore? In una manciata di parole scaglia un macigno, una rivelazione abissale, forse l’idea più fatale e visionaria mai concepita sull’argomento, e insieme d’una evidenza inaudita che non smette di spaurirmi.
“Gli dei procurarono la rovina degli uomini perché anche i posteri avessero il canto” Odissea, VIII.
“Zeus ci inflisse una sorte malvagia per dar materia di canto alle genti future” Iliade, VI.
È una vertigine: la vocazione estetica del male, la sua impensabile virtù medicamentosa, la fonte inesauribile delle Muse.
È la necrofagia a innescare la poiesi, il moto creativo dello spirito. Risuona, ante litteram, la trasmutazione alchemica dalla nigredo in albedo, cioè dalla putrefazione alla sublimazione, dalla sofferenza al rimedio.
Mi congedo con una chiosa d’eccezione. Non so se Leopardi avesse in mente questi passi omerici quando scrisse:
Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose […] quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia a un’anima grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento […] servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo […] e l’anima riceve vita se non altro passeggiera dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria.” G. Leopardi, Zibaldone, 259-26.
Brrr.