Davanti a certe spicciole miserie umane persino l’Altissimo sorride. Ne sarà convinto Jacopo Masini che, in “Santi numi”, mette in scena nella bassa padana sketch, tra agiografie e storie bibliche, che hanno come protagonisti alcuni santi in una dimensione umanissima…
Per rinfrancar lo spirito… tra un enigma e l’altro. Così s’intitola una delle più note rubriche umoristiche di quello che – certamente – è il più famoso settiminale enigmistico italiano. E c’ho pensato subito, cambiando solo la parola enigma con quella di libro, quando ho letto Santi Numi (168 pagine, 16 euro) di Jacopo Masini, edito da Exorma: uno di quei testi che, davvero, ti fanno sorridere di un’allegria buona e pacifica e ti fanno riposare il cervello per un po’, senza che si debbano fare capriole di pensiero e di interpretazione ad ogni piè sospinto quando decidi di metterti a leggere. Il che – come vedremo – non significa necessariamente che una lettura leggera debba essere banale; tutt’altro: la leggerezza è l’arte di chi ha imparato ad innalzarsi sopra le cose, di chi ha imparato a riderne avendole, però, sempre sott’occhio, senza che nessuna di esse rischi di perdere la sua originale e naturale importanza.
Un esercizio di stile
Nella fattispecie, la prima prova di quanto poco sopra ho detto, la si trova nell’idea stessa del libro che – in un originale quanto riuscitissimo tentativo – si propone al lettore come un esercizio di stile in piena regola, trasportando nel contesto di una divertente bassa padana gli episodi più o meno leggendari dell’agiografia del basso medioevo. Più, naturalmente, un’ancora più studiata traduzione in chiave moderna e contadina di alcune note storie bibliche che il lettore, frase dopo frase, si diverte a decriptare.
Jacopo Masini, che si conferma ancora una volta come penna geniale e bravo didatta della narrativa, cavalca con entusiasmo creativo le fantasiose suggestioni che fanno da sfondo ad un particolare genere agiografico, quello che racconta in modo mitico e favolistico le gesta dei santi cari alla tradizione popolare. La Scrittura, poi, gli ridiventa tra le mani una scrittura creativa e mai impertinente, capace di far sorridere di quegli stessi elementi che interrogano qualunque lettore biblico sul senso più alto di una letteralità che troppe volte, invece, viene esonerata dal necessario vaglio dell’interpretazione. E allora Masini ci dà dentro, stigmatizzando le auree miracolistiche che – peraltro – non appartengono necessariamente al dominio della fides quae, e che dunque possono divenire, nel giusto modo, oggetto di ironia.
Santi che santeggiano
Sapete? Leggendo il libro, certe parti soprattutto, mi è venuto in mente il tempestoso dialogo di frate Guglielmo da Baskerville con il fosco monaco Jorge, ne Il nome della rosa; dialogo che avviene all’interno di uno scriptorium e nel quale il saggio frate (che nella penna di Eco è un misto tra Sherlock Holmes e Guglielmo da Occam) – controbattendo alla tenebrosa convinzione dell’interlocutore, il quale sosteneva che Cristo non avesse mai sorriso – disserta con arguzia a proposito di certi episodi legati al martirio dei santi e, in particolare, a quello di San Lorenzo, e raccontando di come questi scherzasse mentre lo arrostivano sulla graticola: Giratemi dall’altra parte che di qua sono già cotto! La mia immaginazione mi ha spinto a figurarmi un ipotetico e divertito fra Jacopo da Parma, messo lì da qualche parte, dentro lo scriptorium, a prendere appunti sul suo prossimo libro.
In effetti, quando leggiamo storie come quelle di Paolino Baistrocchi detto il semplice, o di Rodolfo Tamani il taumaturgo, o Il miracolo di Lazzaro Compiani, e così via con tanti altri personaggi, si ride immaginandosi – appunto – in che modo, esattamente, un santo potrebbe mettersi a sbraitare e santeggiare sbizzarendosi in un comico turpiloquio vernacolare. Ho riso alquanto immaginandomi, in tal frangente, Sant’Ilario di Poitiers! E, anche lì, non è che sia proprio tutta invenzione dell’Autore…
Iperbole umoristica e letteraria
Il fatto è che noi i santi ce li immaginiamo appartenenti ad un qualche mondo lunare, dimenticandoci che qui, sulla terra, si sono sporcati di terra anche loro (figuriamoci quelli della Pianura padana!); dimenticando come sia assolutamente verosimile che a qualcuno di loro sia stato detto: sei vestito che fai cagare, oppure non rompere i marroni, e cose di questo genere. Che poi loro, le medesime cose le abbiano dette, beh… certamente ci è più difficile immaginarlo. Ma anche lì la storia e la paleografia cristiana vengono, almeno in parte, in nostro soccorso.
Pocanzi parlavamo di San Lorenzo sulla graticola, e probabilmente la sua battuta da streetfood è forse una edificante leggenda. Ma a Roma, nella basilica di San Clemente in Laterano, in un affresco che riproduce il santo condotto al martirio, si vedono i servi di Sisinnio tirare con forza una colonna, credendo che sia il santo (il quale è stato già miracolosamente liberato); quest’ultimo, ridendosela dunque come solo un santo sa fare, dice: Fili de la puta, traite! Insomma, credo che l’iscrizione tramandi un fatto che, ai tempi, ammesso che il romanesco fosse già come quello di oggi, sarebbe suonata più o meno così: E daje, a fiji de ‘na mignotta!
Per cui, quando ci si sofferma su certi dialoghi, che certo godono del beneficio dell’iperbole umoristica e letteraria, non è che poi si sia tanto lontani da una verosimile realtà! Certo, Masini calca il palcoscenico del fantastico, perché oltre certi margini è quello il genere letterario, ma riprende canoni da due versanti: quelli della pietà popolare, e quelli di un popolo che talvolta fa pietà: e il suo merito è propriamente quello di riderne, o di far pensare che davanti a certe spicciole miserie umane persino l’Altissimo sorrida, se non divertito almeno paternamente rassegnato.
Drammi e commedie della provincia
La bassa padana, che è la grande ribalta su cui si giocano gli sketch proposti da Masini, ci fanno pensare a certe scene care a Guareschi: quelle di un’Italia semplice, vissuta tra un bar dello sport ed una balera sulla provinciale (vi ricordate il Kiwi?), tra una masseria ed una zanzarosa riva del Po; un’Italia contadina che, certo, Peppone e Don Camillo ci hanno fatto conoscere con il medesimo tenore di umanità che nelle pagine di Masini si ripropongono, seppure con un accento diverso. Ma è lì che lui ambienta le favolose gesta di questi personaggi rivitalizzati e ricontestualizzati, e non lo fa solo per dare un’allegra mano di bianco a storie passate: mi sembra di cogliere, piuttosto, l’implicita affermazione di come – in effetti – la provincia d’Italia, qualunque essa sia, sappia generare autonomamente, nella consumazione della sua invisibile quotidianità, drammi e commedie che non hanno bisogno dell’agiografia classica per creare santi e dannati, né di elevare necessariamente alla gloria degli altari una beatitudine che – semplicemente – è quella di vivere.
Naturalmente, anche l’apparato strutturale della raccolta gode di una qual certa somiglianza canonica ad altre empiree letture: i dodici racconti maggiori – per lo più le riprosizioni delle pagine bibliche o i rifacimenti agiografici dei santi più noti – fanno da interpunto alle storielle più brevi e più leggere che però, anch’esse dal canto loro, riportano il segno di personaggi che non sono del tutto casuali. In tal maniera, per esempio, sembra di rivedere la struttura nella quale, seppure in modo opposto, il canone biblico ordina i quattro Profeti maggiori e i dodici minori. Magari sarà deformazione professionale, ma non mi pare davvero che questa struttura sia del tutto casuale. Segno che una cosa va fatta bene, sempre, specie quando – per il suo genere letterario – rischierebbe di passare per qualcosa che possa prendersi sotto gamba: nulla di più sbagliato! Chi è fedele nel poco (dell’allegria) è fedele nel molto (della gioia).
Leggero, non frivolo
Ad un certo punto della lettura, appunto, ti imbatti in frasi che – a dispetto di ciò che ti aspetteresti da una lettura leggera (e qui si capisce tutta la differenza tra leggero e frivolo) – ti colpiscono per una profondità passata quasi in silenzio dietro l’alibi del sorriso, ma rilucente tra le righe di chi le sa leggervi in mezzo:
Quindi, per quanto consueto, il solo fatto di assistere all’avverarsi della consuetudine getta nello scompiglio l’animo di chi vi assiste, il che dimostrerebbe, secondo il venerabile Ermes e il beato Glicerio, che non abbiamo poi davvero tutta questa consuetudine con la consuetudine, come dimostra il fatto che la morte, decisamente la cosa più consueta della vita, continua a gettarci nell’angoscia e nello sconforto.
Già, la consuetudine. Quella con cui magari, tante volte, si prende in mano una lettura sapendo già che cosa ci toccherà leggere (quanta presunzione!); o quella, ben peggiore, che ci ha fatti abituare al fatto che un sorriso, e una risata, magari, non possano mai farci riflettere. Diceva Leopardi: Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire.
Questo, credo, lo sapevano bene i martiri (certamente lo sapevano San Lorenzo e San Clemente), e credo lo sappia bene anche Jacopo Masini, o fra Jacopo da Parma, cui va il merito di averci divertiti, e di averlo fatto apposta!
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