Le protagoniste di “Una stanza per Ada” di Sharon Dodua Otoo rappresentano le donne che nei secoli e in luoghi diversi sperimentano gioie e difficoltà di essere femmine e che combattono per sentirsi libere e creative, pensanti e non passive. Permeato di animismo, con forti influenze di afrofuturismo, pieno di riferimenti cinematografici, musicali e letterari, un romanzo a dir poco notevole
Dice l’autrice: «Volevo scrivere qualcosa che portasse il lettore attraverso l’esperienza di sentire direttamente, sul proprio corpo, che le cose non possono essere ordinatamente categorizzate, quindi se qualcuno sta leggendo questo romanzo e si sente confuso, questo è il punto».
Alterità e spaesamento
Sono una donna bianca, nata a metà degli anni ‘70 (per una manciata di anni non posso considerarmi una boomer) in Italia, un paese dell’Occidente emancipato e democratico, cresciuta in una famiglia cristiano-borghese di piccoli imprenditori. Ho studiato, fino alla laurea, ho viaggiato e ho pure divorziato! Sembra una citazione meloniana, ma rende l’idea. Non ho esperienza di discriminazione razziale, se non quella dei miei amici “lumbard” che fanno il verso alle mie vocali aperte. Non ho combattuto per i diritti, di voto e aborto, altri lo hanno fatto per me. Non ho mai subito violenza, nè fisica nè psicologica. Ho sempre potuto esprimere le mie idee senza conseguenze, per lo meno giuridiche. Ha ragione Sharon Dodua Otoo, è difficile sentire, sul proprio corpo, l’alterità, l’alienazione e lo spaesamento geografico, sociale e politico, se non si è vissuto. Lei, immigrata ghanese di seconda generazione, nata e cresciuta in Gran Bretagna, vive a Berlino da quindici anni e scrive, in tedesco, con la potenza dell’immaginazione e qualche nota autobiografica.
La linearità del tempo? Frammentata
Permeato di animismo, con forti influenze di afrofuturismo, pieno di riferimenti cinematografici, musicali e letterari, a partire dal titolo esplicitamente evocativo del manifesto femminista di Virginia Woolf, Una stanza per Ada (272 pagine, 18 euro) di Sharon Dodua Otoo, dal punto di vista estetico, è un romanzo (tradotto da Fabio Cremonesi per NN) davvero notevole. Notevolissima la copertina! Enigmatica la trama, in cui la linearità del tempo è frammentata e le storie di quattro donne s’intrecciano, si separano e infine si ricongiungono, raccontate, in prima persona da narratori eccezionali. Una vecchia scopa si commuove per Ada, giovane donna, “colpevole” di non riuscire a partorire figli vivi, che piange la perdita del suo bambino durante la colonizzazione portoghese nell’odierno Ghana. Il battente di un portone è testimone della relazione adulterina tra Ada Lovelace, matematica, la prima programmatrice della storia, prima in un mondo dominato da maschi, e Charles Dickens, incarnazione della pìetas vittoriana ma amante misogino e crudele. La stanza di un campo di concentramento, assiste agli amplessi di Ada, schiava del sesso, prigioniera a Mittelbau-Dora, costretta alla prostituzione. Infine, un passaporto britannico in tempi di Brexit, accompagna Ada, una donna ghanese, incinta, che cerca alloggio e accoglienza in una Berlino ancora razzista e diffidente.
Una donna, molte donne
Tutte ambientazioni non convenzionali e un’unica protagonista, per raccontare storie di ordinaria violenza fisica, sessuale e ideologica.
Ada non è una donna, ma molte. Ada è tutte le donne che nei secoli e in luoghi diversi sperimentano gioie e difficoltà di essere femmine e che, con resilienza, combattono per la loro indipendenza, per conquistare il proprio posto, quella “stanza tutta per sé” che, per Virginia Woolf, già un secolo fa, era l’allegoria di un luogo in cui una donna può sentirsi libera e creativa, pensante e non passiva. L’indipendenza nello spazio come metafora è oggi un concetto declinabile sotto svariati punti di vista, considerato da tutti, un porto sicuro e un terreno di conquista.
Anche da chi, come me, ha la fortuna di non essersi dovuta conquistare niente.
P.s. Per tutti quelli che hanno letto il libro di Dodua Otoo e si stanno arrovellando sul significato del braccialetto (chi dice di non farlo, mente!), fil rouge di tutto il racconto, io ho una mia teoria…
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